Sono passati quasi trent’anni dall’approvazione della Convenzione dei diritti del fanciullo da parte delle Nazioni Unite ma la sua attualità non è mai venuta meno.  A differenza di tutti i testi precedenti in materia di infanzia, la Crc (acronimo del nome inglese della Convenzione, ovvero Convention on the Rights of the Child) sfugge per la prima volta alle precedenti visioni paternalistiche dell’infanzia e assegna ai bambini e agli adolescenti dei diritti propri in quanto esseri umani; ai vecchi concetti di tutela e protezione vengono affiancate idee nuove come quella di partecipazione, del diritto all’ascolto e del diritto di espressione. I bambini vengono finalmente trattati come soggetti capaci di agire e decidere in quanto persone.
La portata rivoluzionaria della Crc investe tutti i campi inerenti il mondo dell’infanzia, compreso ovviamente l’ambito del diritto penale: gli articoli 39 e 40 della Convenzione si prefiggono l’obiettivo di tutelare i diritti dei ragazzi che entrano in contatto con la legge. Esprimono il principio per cui il trattamento penale deve tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale dei minori autori di reato, obbligano gli Stati firmatari a fissare un’età sotto la quale i ragazzi non possano essere considerati imputabili, suggeriscono il ricorso alle misure alternative alla carcerazione, obbligano alla tutela dei minori dal e nel procedimento penale.
Oltre a questi principi specifici per il contesto penale minorile, i diritti che la Convenzione tutela e promuove sono cinquantaquattro e trattano dei più disparati aspetti della vita dei minori: dal diritto al nome (art. 7) al diritto alla salute (art. 24), dal diritto all’istruzione (art. 28) al diritto al gioco (art. 31) e così via.
Tra questi, ci sono quattro diritti fondamentali che il Comitato Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ha individuato come principi generali poiché sono trasversali a tutti gli altri diritti espressi dalla Crc: il principio di non discriminazione (art. 2.1), il principio del superiore interesse del minore (art.3.1), il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo (art. 6) e il principio di partecipazione e rispetto per l’opinione del minore (art.12).
Analizzando alcuni tra questi diritti ci siamo domandati se e come possano essere attuabili nell’ambito penale minorile nonché se e come lo siano nella concretezza del sistema italiano.
1.    L’articolo 3.1: il principio del superiore interesse
In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente.
Il principio del superiore interesse del minore rappresenta uno degli articoli considerati più innovativi e importanti di tutta la Convenzione, non solo perché pone il ragazzo come soggetto di tutto il sistema ma anche perché diventa lo strumento con il quale viene misurata la riuscita di tutti gli altri diritti e non solo: il principio del superiore interesse deve essere applicato anche nella risoluzione di conflitti che possono sorgere tra due o più diritti contenuti nella Crc (cfr. Belotti V., Ruggiero R., a cura di, Vent’anni di infanzia: retorica e diritti dei bambini dopo la Convenzione dell’Ottantanove, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2012, pagg. 114, 115).
Per quanto riguarda il nostro sistema penale minorile, possiamo affermare che la legislazione in materia segue quanto previsto dall’articolo 3.1 poiché si struttura attorno all’idea che il minore che viene a contatto con la giustizia debba essere trattato con misure specifiche per la fase della vita in cui si trova, cercando di evitargli lo stigma derivante dal percorso penale/detentivo. Il rito minorile non può e non deve replicare quanto previsto per gli adulti proprio nel rispetto dell’interesse superiore del fanciullo.
L’articolo 37 della Convenzione sviscera la questione del migliore interesse in ambito penale: impone agli Stati firmatari la tutela dei minori anche nei contesti penali pure attraverso il divieto dell’ergastolo o della pena di morte (per gli Stati in cui la pratica è ancora in vigore) nei confronti di un minore di 18 anni. Il nostro Paese può dirsi un precursore per quanto riguarda questo aspetto poiché già nel 1889, cento anni prima che la Crc fosse approvata, con il Codice Zanardelli, fissava un’età sotto la quale il minore non potesse essere considerato in grado di intendere e volere (che oggi è stata estesa e portata a 14 anni) e già nel 1934 nasceva il Tribunale per i minorenni: un organo specializzato e specifico per i minori che tratta la questione sotto un punto di vista multidisciplinare (penale, civile amministrativo per mezzo di giudici togati e onorari esperti di infanzia sotto diversi profili professionali).
Il Dpr 448/1988, il Codice del processo penale minorile, che viene redatto proprio negli anni in cui anche la Crc vedeva la luce, è completamente intriso di questi principi e si struttura sulla considerazione che la pena detentiva nei confronti di un minorenne sia un atto di extrema ratio applicabile per la più breve durata possibile. Quando si ritenga necessario il ricorso alla detenzione, il sistema minorile provvede a che “ogni fanciullo privato di libertà sia trattato con umanità e con il rispetto dovuto alla dignità della persona umana e in maniera da tener conto delle esigenze delle persone della sua età”, come prevede anche l’articolo 37 della Convenzione.
Partendo da questi principi si è sviluppato fino ad oggi tutto l’impianto legislativo e di presa in carico del minore autore di reato con quel che si può definire un certo successo: è stato creato un sistema ad hoc che prevede la tutela del minore in tutte le sue forme (dal processo a porte chiuse alla specializzazione di tutte le figure professionali fino alla specificità del rito e delle misure di diversion), lasciando davvero che il ricorso alla carcerazione sia da considerarsi l’eccezione rispetto alle molto più utilizzate misure della messa alla prova, dell’irrilevanza penale del fatto e del perdono giudiziale.
Rispetto ad un sistema penitenziario che ci fornisce numeri preoccupanti sull’utilizzo della carcerazione per gli adulti, quel che emerge dai dati sul sistema minorile è di tutt’altra forma. Gli Istituti penali per minorenni italiani (Ipm) sono sedici e nessuno è in preoccupanti condizioni di sovraffollamento. Ci sono stati 538 ingressi in Ipm nei primi sei mesi del 2017, con una presenza media giornaliera nel periodo di 466,7 detenuti.  Il numero dei ragazzi reclusi negli Istituti di pena del nostro Paese è di molto inferiore al numero totale dei minori in carico ai servizi sociali (sia con una misura di messa alla prova –anche in comunità – sia con una misura alternativa, sostitutiva, di sicurezza, cautelare come le prescrizioni e la permanenza in casa). Insomma il carcere è davvero l’ultima spiaggia per la realizzazione del superiore interesse dei ragazzi.
Nonostante il sistema funzioni seguendo il principio determinato dall’articolo 3 della Crc, contiene certamente alcune criticità, prima fra tutte la mancanza di un ordinamento penitenziario specifico per i minorenni. Infatti, per i minori entrati nel circuito penale l’ordinamento penitenziario vigente è quello destinato ai detenuti adulti, emanato con la legge n. 354 del 26/07/1975 e che, all’art. 79, dispone: “(…) le norme dettate per gli adulti si applicano anche nei confronti dei minori sottoposti a misure penali fino a quando non sarà provveduto con apposita legge”. La Corte Costituzionale, con più sentenze, è intervenuta dichiarando illegittime parti della legge 354/1975 nella misura in cui, se applicate ai minorenni, violerebbero l’articolo 27 in materia di funzione rieducativa della pena. È forte oggi tra tutti gli operatori che si occupano della materia l’esigenza di elaborare un ordinamento penitenziario minorile e questa necessità è stata oggetto del Tavolo 5 (Minorenni autori di reato) degli Stati Generali dell’esecuzione penale 2015 – 2016. La recente riforma della giustizia penale recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario” (legge n. 103/2017), votata nel giugno 2017, delega al Governo una riforma complessa dell’ordinamento penitenziario, secondo criteri direttivi che vanno a investire punti rilevanti. Tra questi, si prevede la predisposizione di norme specifiche per i minorenni, in maniera sufficientemente articolata da poter immaginare la stesura di un ordinamento penitenziario autonomo per gli Istituti di pena minorili. Nel momento in cui scriviamo, tuttavia, i decreti attuativi della riforma non sono ancora pubblici e non siamo dunque in grado di valutare la portata delle nuove norme.
Una questione che crea molto dibattito intorno al concetto di migliore interesse è nata dall’approvazione del Decreto Legge 26 giugno 2014 n. 92, modificato con la legge n. 117 del 2014, che ha esteso la permanenza negli Ipm dai ventuno fino ai venticinque anni a coloro che hanno compiuto il reato da minorenni. La discussione sulla questione si basa proprio su che cosa può essere considerato interesse superiore.  Chi è contrario a questa disposizione sostiene che la componente dei cosiddetti giovani adulti sia numericamente rilevante ed impossibile in quasi tutti gli Ipm da separare fisicamente rispetto ai detenuti minorenni e che questo pregiudichi il diritto dei ragazzi più giovani al soddisfacimento delle esigenze specifiche della propria età (le esigenze di un quindicenne sono diverse da quelle di un venticinquenne), oppure sostiene che i primi potrebbero essere negativamente influenzati dai secondi (che possono più facilmente avere già avuto precedenti penali, ad esempio).  Chi è favorevole sostiene che i numeri dei giovani adulti reclusi siano sì numericamente rilevanti ma non tali da rendere ingestibile la situazione negli Ipm (i dati delle presenze rispetto alle capienze massime degli istituti non sono certo preoccupanti), e che la presa in carico del migliore interesse del ragazzo riguardi proprio la considerazione dell’interesse di chi, avendo compiuto il reato da minorenne, può evitarsi il carcere degli adulti (e tutto quello che questo significa) fino ai venticinque anni.
1.    Articolo 2.1: Il principio di non discriminazione
Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza.
Il principio di non discriminazione è un principio fondante di ogni Convenzione sui diritti dell’uomo: dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne alla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, solo per citarne alcune.
Il principio di non discriminazione – sia essa razziale, di genere, nei confronti delle persone con disabilità o economicamente svantaggiate – nella tutela dei diritti dell’infanzia deve avere un ruolo ancora maggiore rispetto a quello garantito dalle altre Convenzioni proprio per la particolare fase della vita in cui il minore si trova. In ambito penale si arriva a parlare di “fattori di discriminazione multipla” poiché la minore età, la condizione giuridica di autore di reato, l’esposizione al rischio di disagio psicologico e sociale pongono i ragazzi in una condizione di rischio ancora maggiore (cfr. Gruppo Crc,, I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia: Ottavo rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, 2014 – 2015, pag. 157).
1.1    La discriminazione etnica e geografica
I dati del Ministero di Giustizia sulle presenze in Ipm ci dicono che nei 16 istituti italiani era ospitato, al 15 ottobre 2017, circa lo stesso numero tra detenuti italiani (243) e stranieri (210). Confrontando questi numeri con quelli dei minori in carico agli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (Ussm) emerge però un dato diverso: i ragazzi italiani in carico al primo gennaio 2017 più quelli presi in carico da allora fino al 15 ottobre (13.881) sono il triplo dei ragazzi stranieri (4.928).
Questa analisi rileva una sovra-rappresentazione dei ragazzi stranieri detenuti rispetto al numero delle prese in carico ed un più alto ricorso per gli italiani alle misure alternative.
Gli stranieri detenuti sono anche più giovani degli italiani: in carcere entrano prima (riscontrabile anche dal dato sugli ingressi in Ipm degli stranieri direttamente da una condizione precedente di libertà).
Il sistema minorile, per quanto capace di residualizzare il carcere, non riesce fino in fondo a non procedere a una discriminazione sull’utilizzo delle alternative alla detenzione, destinate più facilmente ad alcune categorie di ragazzi piuttosto che ad altre, selezionate non solamente in base alla gravità del reato commesso ma anche alla condizione sociale, geografica o etnica.
1.2    La discriminazione di genere
Un’altra problematica inerente all’applicazione del principio di non discriminazione riguarda la detenzione minorile femminile.
Come accade nel caso delle donne adulte, anche le ragazze commettono meno reati dei loro coetanei maschi e di conseguenza rimangono più estranee ai meccanismi del sistema penale: al 15 ottobre 2017, su un totale di 6.286 giovani in carico agli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (senza contare coloro che erano collocati in servizi residenziali), le ragazze erano solo 659. Alla stessa data negli Ipm, su 453 detenuti, solo 37 erano ragazze (di cui ben 30 straniere). Pochissime infatti fanno esperienza del carcere poiché beneficiano in larga parte delle misure alternative.
Nei primi sei mesi del 2017 hanno fatto ingresso negli Ipm italiani solo 65 ragazze contro i 473 ragazzi; tra queste solo 19 erano italiane, per cui si può dire che la sovra-rappresentazione degli stranieri nelle carceri minorili trova la sua massima espressione nell’ambito femminile.
A causa di questi numeri contenuti esistono solo tre Istituti penali minorili che ospitano ragazze in Italia: Pontremoli (unico Ipm esclusivamente femminile), Roma e Nisida (che hanno sezioni femminili in aggiunta a quelle maschili). L’esiguo numero e la disposizione di questi Ipm pongono un problema in relazione al principio di territorialità della pena, ovvero il principio per cui ogni detenuto, in particolar modo un minore, ha diritto a scontare la condanna nel luogo più prossimo a quello in cui si sviluppa la sua vita, proprio perché la pena (e il progetto educativo che gli operatori specializzati predispongono) deve tendere al reinserimento del ragazzo nel contesto in cui tornerà una volta uscito (salvo casi particolari come ad esempio quello in cui i minori fanno parte di contesti di criminalità organizzata sul proprio territorio). Per capire l’importanza del principio di territorialità della pena come condizione integrante del trattamento occorre ricordare che anche il Tavolo 5 degli Stati Generali dell’esecuzione penale a tal proposito ha formulato una proposta inerente la rigida interpretazione del principio di territorialità dell’esecuzione penale, derogabile solo previa autorizzazione del giudice (Dal sito del Ministero di Giustizia: Stati generali esecuzione Penale 2015- 2016).
La condizione femminile porta con sé anche la discussione sulla maternità in carcere. Alcune tra le giovani ragazze detenute negli Ipm sono madri, con tutto ciò che questo comporta in termini di tutela della madre e del bambino, tanto nel caso in cui quest’ultimo sia con loro in Istituto quanto nel caso che viva all’esterno.