Angelo Mammana è il direttore del Centro di Prima Accoglienza di Roma, incarico che ricopre da quasi 30 anni. I Cpa sono istituzioni che fanno parte dei servizi minorili della Giustizia. Sono le strutture dove i ragazzi appena arrestati o fermati vengono condotti in attesa dell’udienza di convalida e dove possono permanere per un massimo di 96 ore.
Direttore Mammana, i Cpa sono luoghi che giocano un ruolo molto importante nel percorso di un minore privato della libertà. Per capirli meglio è forse utile guardare alla loro storia, al modo in cui sono nati.
Sì, direi di sì. L’istituzione del Cpa è nata nel 1989, 28 anni fa. In questi 28 anni, per dare una misura dell’importanza del luogo, dal Cpa di Roma, che è quello che dirigo, sono passati oltre 20 mila ragazzi. Questi luoghi sono stati concepiti assieme nuovo codice di procedura penale. Già dalla fine degli anni ‘70 la giustizia minorile aveva cominciato a ragionare in termini di “esterno”, di alternative al carcere, ponendosi l’obiettivo di ridurre al minimo il ricorso al carcere minorile e far uscire i minorenni dal sistema penale. Il codice di procedura penale penale per i minorenni, scritto nel quadro del codice generale da magistrati e giuristi con l’indicazione di dare massima residualità del carcere, ha previsto il servizio del Cpa, un’istituzione unica, senza precedenti né termini di paragone.
Nei Cpa lavorano diversi operatori con competenze specifiche, difficilmente trasferibili da altri ambiti. In principio si è posto il problema della formazione di questi operatori. Come sono sorte queste compenteze? 
La peculiarità della nuova istituzione del Cpa stava nel suo essere del tutto slegata – almeno nella realtà romana – dall’IPM. Ciò ha fatto sì che fosse il servizio stesso a insegnare agli operatori ciò che era necessario in tale contesto. I luoghi danno delle indicazioni alle persone, in negativo o in postivo – molto più spesso in positivo. Le persone sviluppano degli adattamenti funzionali a un contesto preciso, sulla base di alcuni obiettivi del lavoro. Gli operatori che non avevano mai lavorato in una realtà simile a quella del Cpa hanno imparato il giusto approccio professionale dall’esperienza sul campo. Finché l’istituzione non è stata messa all’opera, anche gli addetti ai lavori la consideravano troppo complessa, poiché concentrava molto lavoro in un tempo che sembrava troppo breve. Tuttavia, una volta confrontatisi con la crisi, con i ragazzi, con le famiglie, con l’accoglienza, gli operatori hanno compreso il proprio ruolo e adattato il lavoro al luogo e agli obiettivi. Con ottimi risultati.
Come si rapporta l’istituzione con un ragazzo in una fase delicata come quella che segue l’arresto? 
Il ragazzo entra, e l’unico motivo per cui noi siamo qua è quel ragazzo che entra, quindi tutto è orientato su di lui. Il Cpa interviene nell’attimo di una crisi, per cui è necessario un elevato livello di attenzione. I ragazzi arrivano attraversati con forti tensioni: il conflitto, l’arresto, il fatto di aver infranto la legge – talvolta sotto effetto di sostanze – sono elementi problematici. Arrivato qui scopre di dover trascorrere nel Cpa un tempo breve, prima di incontrare il giudice, che deciderà del suo futuro, un futuro che non è affatto scontato: non è detto che il ragazzo vada in carcere, le alternative sono molte.
Le famiglie dei minori che ruolo hanno in questa fase?
Le circostanze favoriscono l’interazione con il ragazzo e anche con i suoi familiari, che hanno un ruolo fondamentale. L’istituzione è stata pensata per stabilire una relazione con le famiglie. Il tipo di ragazzi cui si pensava allora erano i ragazzi italiani con delle famiglie alle spalle. Nel tempo poi ci si è accorti che molti ragazzi, soprattutto stranieri, non hanno alle spalle delle famiglie con cui relazionarsi, e ci si è adattati.
Nei casi in cui le famiglie ci sono però, hanno un ruolo importante e sono coinvolte in tutto il processo. I genirori fanno un colloquio con gli operatori e con il proprio figlio, generalmente il giorno dopo l’ingresso in Cpa. Sono contatti sono positivi, perché creano un aggancio, danno vita al primo momento di accordo interazionale. Se si parte da una certa base costruita inizialmente poi la si può allargare fino a creare un vero e proprio percorso. Il Cpa non mette sotto attacco nessuno, accoglie per riflettere e avere informazioni, e questo ha un effetto positivo sulle famiglie. Si crea un contratto non scritto, sia che avvenga in pochi minuti che in molti mesi, un’interazione positiva in itinere tra operatore e utente.
Come vive questa fase il ragazzo? E come interagisce con l’istituzione?
Nonostante il Cpa sia per il ragazzo continuazione del conflitto e della privazione iniziati al momento dell’arresto, al suo interno cambiano i suoi tempi e le sue modalità. La percezione della crisi pian piano può cambiare, perché l’approccio è diverso da quello adottato in precedenza dagli altri attori. In Cpa il ragazzo riceve soluzioni ai suoi bisogni primari, informazioni dettagliate su quello che gli sta per succedere, e viene trattato con rispetto. Ai ragazzi si dice subito tutto quello che li riguarda, si cerca di non dire mai bugie, si dialoga. Si tenta di dare un messaggio coerente di rispetto, attenzione, serietà, di fare di uno sforzo teso al dialogo. E si fa un ragionamento sulla norma. Il Cpa vuole essere uno strumento per il ragazzo che si è posto al di fuori della norma affinché ci rientri al più presto. All’atto pratico peraltro, il comportamento e l’atteggiamento del ragazzo arrestato nei confronti del Cpa è un elemento preso in considerazione dai giudici che svolgono le udienze.
Cosa succede dopo il passaggio in Cpa? Il rapporto con il ragazzo continua?
Anche qui è utile ripercorrere un po’ l’evoluzione delle cose, per capire come funzionava prima e come funziona adesso. Le dinamiche generatesi a partire Cpa hanno aperto uno spazio di lavoro inizialmente neppure considerato, vale a dire la continuazione dell’attenzione al ragazzo oltre la permanenza in Cpa. Nei primi anni del servizio questa opzione non era pensabile: il lavoro esterno sulle misure cautelari era da inventare, esistevano poche comunità, strutturate in modo isolato come singole iniziative. I ragazzi destinati alla custodia cautelare in IPM si aggiravano tra il 30 e il 40% degli arrestati – dato peraltro migliore rispetto al passato –  e la misura in primis gli stranieri privi di contatti familiari in Italia, per i quali le scelte in sede di processo si limitavano alle sole opzioni di liberazione o detenzione. Da metà anni ‘90 invece il numero degli operatori assegnati al Cpa è andato aumentando, e ciò ha permesso di cominciare a lavorare sulle misure esterne, a proseguire il lavoro di assistenza oltre la permanenza nel Cpa. E’ stato un cambiamento importante, si è creata una continuità tra il Cpa e l’esterno, a beneficio dei minori. Gli assistenti sociali a cui venivano assegnati i ragazzi prima, in casi come la permanenza domiciliare trovavano grandi difficoltà a scalfire delle tensioni familiari ricostruite e tese a richiudersi verso l’interno. Con un operatore che già conosceva la famiglia dal Cpa invece, il lavoro è diventato continuativo. Quello della frammentazione è un aspetto quasi ineludibile del sistema minorile, e costringe il ragazzo a ricominciare da capo ogni volta. La costruzione di una continuità tra interno ed esterno del lavoro degli educatori e degli assistenti sociali ha avuto successo: le misure cautelari esterne hanno avuto esiti positivi, e i casi di arresti ripetuti sono diventati più rari e isolati.
Quindi l’evoluzione dei Cpa ha avuto effetti sulle decisioni dei giudici.
Sì, perché come conseguenza di quanto detto i giudici hanno iniziato disporre misure del genere in numeri maggiori, e la custodia cautelare si è ridotta di molto – in particolare laddove i ragazzi avevano alle spalle le famiglie. Attualmente la percentuale di custodia cautelare è complessivamente sotto al 10%, sia per gli italiani che per gli stranieri. Per tutti i ragazzi che non arrivano mai in carcere, gli operatori garantiscono il contatto con le famiglie durante il tempo vuoto tra il Cpa e la misura, in modo da fornire agli assistenti sociali che prenderanno in carico i casi degli strumenti già avviati.
Cosa può dirci invece del Cpa di Roma?
Rispetto a quanto ho appena detto, il Cpa di Roma ha adottato un approccio particolarmente attento nei confronti dei molti ragazzi rom (di fatto la maggioranza di tutti gli arrestati) che passano per l’istituto e che vengono seguiti durante l’intera misura esterna. È stato realizzato il progetto “Fuori Campo”, che ha messo in relazione numerose realtà sanitarie, scolastiche, associative e di volontariato per dare un futuro a questi ragazzi. Il Cpa – quello di Roma ma anche quelli degli altri territori – si caratterizza non solo per il suo ruolo di accoglienza e per l’attenzione verso i ragazzi arrestati e le loro famiglie, ma anche per l’aspetto continuativo che ha assunto nel tempo, che esula dai quattro giorni di massima permanenza al suo interno.
Quali sono i numeri del Cpa di Roma? Come sono cambiati nel corso del tempo e cosa ci dicono del tipo di minori che passano dai centri, dei reati commessi e del comportamento delle autorità?
I numeri sono cambiati nel corso del tempo e lo hanno fatto a seconda dei cambiati presenti nella società, soprattutto quelli legati ai flussi migratori. Per anni il flusso è rimasto stabile, nell’ordine medio dei 700 ragazzi l’anno (700 ingressi). Anche la tipologia dei reati è rimasta dello stesso tipo e con numeri simili: prevalentemente furti, spaccio di droghe leggere, poche rapine, isolati reati di tipo diverso. Le percentuali di ragazzi italiani e stranieri hanno mantenuto proporzioni piuttosto stabili: su 700 ragazzi di media, 250 potevano essere italiani e 450 stranieri, dei quali oltre 300 di etnia rom e il resto di varie nazionalità, a seconda dei flussi migratori. A fine anni ‘80 vi era un numero consistente di ragazzi provenienti dalla zona del Maghreb, poi vi è stata la fase delle migrazioni degli albanesi. Poi, tra il 2004 e il 2007, il Cpa di Roma ha raggiunto il numero massimo di ingressi: 1214 nel 2005, quasi il doppio di quello che era considerato il flusso normale. In quel periodo il Cpa poteva ospitare anche 29 ragazzi al giorno, numeri altissimi sia per gli spazi che per la quantità di lavoro affidata agli operatori. Ciò era dovuto all’ondata migratoria rumena, che aveva portato dei cambiamenti anche all’interno della comunità rom presente a Roma, tradizionalmente di origine slava. Il flusso si è normalizzato di nuovo dopo il trattato di Schengen: la libera circolazione ha fatto sì che lo spazio d’azione, prima limitato, delle organizzazioni criminali alle spalle dei giovani che commettevano furti perdesse i suoi limiti, dunque in qualche modo vi è stata una distribuzione tale da far sì che i grandi numeri della migrazione romena in pochi anni tornassero alla normalità, vale a dire ai circa 700 ragazzi annui. Un importante cambiamento è stato introdotto dal fatto che le forze di polizia hanno smesso di arrestare o comunque di condurre in Cpa i minori non imputabili, che potevano essere anche 200 ogni anno. Questo numero era stato più o meno sempre fisso, dunque il riferimento annuale è diventato di 500 ragazzi scarsi. Attualmente, nel Cpa potrebbero arrivare al massimo circa 8 minori non imputabili ogni anno. Ciò ha ridotto il numero dei ragazzi rom arrestati ogni anno.  Adesso, il flusso annuale è di circa 400 ragazzi. Di questi, gli italiani sono circa 130: ciò è dovuto non tanto ad una diminuzione dei reati, ma a una percezione sociale mutata, che tende a evitare l’arresto o anche la denuncia per crimini minori. Ciò non vuol dire che non vi siano le condizioni per l’esistenza di un disagio adolescenziale, ma tale fenomeno, pur pericoloso, non arriva al Cpa. Gli stranieri si aggirano sui 270 all’anno, dei quali 70 circa stranieri di varie nazionalità e il resto rom slavi e romeni, rimasti dall’ondata degli anni 2000.
Come si svolge una giornata tipo nel Cpa di Roma?
La permanenza in un Cpa può durare al massimo 96 ore. Generalmente, la permanenza media dei ragazzi si aggira intorno alle 55 ore. La grande maggioranza degli ingressi, circa il 90%, avviene di sera, nella fascia oraria dalle 19 alle 2 del mattino. All’arrivo i ragazzi vengono registrati, riforniti di abiti, biancheria e altri oggetti necessari, e lasciati riposare. La mattina nel Cpa è piena di eventi per i ragazzi: visite mediche, colloqui con psicologi ed educatori, colloqui con i genitori. Questo fa sì che solo il pomeriggio possa essere destinato a fare qualcosa di diverso. Ci sono passatempi semplici, come la televisione, le carte, la possibilità di disegnare e colorare. L’attività in Cpa è legata all’idea di offrire opportunità adatte al contesto, vale a dire permettere di creare prodotti realizzabili in circa due ore.
Quali attività vengono offerte ai ragazzi?
Ci sono tre attività principali nel Cpa di Roma. La prima è un’idea di informazione sportiva: i ragazzi non fanno ginnastica in senso stretto, ma si parla di sport, si danno consigli, al massimo si mostra qualche esercizio. La seconda è un’attività di videomaking: i ragazzi guardano i brevissimi corti realizzati dagli altri, poi possono girare i loro video all’interno della struttura e montarli al pc con l’aiuto dell’educatore. La terza attività riguarda l’alfabetizzazione informatica: vengono mostrati ai ragazzi degli usi del pc, sia programmi base che navigazione internet. Queste attività sono strumenti di distrazione e convogliano la creatività dei ragazzi.
Quanto conta la brevità del tempo di cui si dispone? 
Come è facile immaginare, tempi di permanenza così brevi fanno sì che la velocità conti molto nella percezione che hanno i ragazzi del Cpa. Questo ha degli effetti anche sul sistema stesso: a differenza di quanto può succedere in IPM, manca la componente del gruppo, poiché la componente dei ragazzi arrestati è discontinua. Possono conoscersi, ma non hanno il tempo di costruire qualcosa. All’atto pratico dunque il Cpa è un filtro, il servizio si identifica più nel tempo di attraversamento che non nella permanenza.