Servizi della Giustizia Minorile
Dal Dipartimento per la Giustizia Minorile dipendono i Centri per la Giustizia Minorile (CGM – organi del decentramento amministrativo istituiti dall’art. 7 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n.272 “Norme di attuazione e coordinamento del D.P.R. 448/88) che hanno prevalentemente competenza regionale. Ognuno di questi Centri opera sul territorio attraverso i Servizi Minorili della Giustizia (previsti dall’articolo 8 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272). I Centri esercitano funzioni di programmazione tecnica ed economica, controllo e verifica nei confronti dei Servizi minorili da essi dipendenti quali gli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (USSM), gli Istituti Penali per i Minorenni (IPM), i Centri di Prima Accoglienza (CPA), le Comunità.
L’attivazione di tutti gli interventi destinati al minore di informazione, di conoscenza, di sostegno, di controllo, di raccordo operativo è affidata ai Servizi Minorili della Giustizia. I Servizi della Giustizia Minorile (CPA, USSM, IPM, COMUNITA’, CENTRI DIURNI) sono pensati con lo scopo di attuare interventi che abbiano come fine ultimo il recupero del minore “entrato in conflitto” con la Giustizia, attraverso la determinazione di percorsi educativi o socio-riabilitativi. Tali percorsi sono orientati a supportare il minore nella (ri) costruzione di una propria dimensione individuale e ad offrirgli la possibilità di sperimentarsi ed esprimersi, con l’obiettivo di determinare una presa di coscienza in merito al reato a lui ascritto ed una revisione critica di quanto commesso.

Centri di Prima Accoglienza – CPA
Sono strutture che accolgono e ospitano temporaneamente il minore in stato di arresto o fermo fino all’udienza di convalida, che deve necessariamente aver luogo entro 96 ore dall’arresto o dal fermo. La principale finalità di queste strutture è quella di evitare il forte impatto con il carcere. Infatti, secondo quanto previsto dall’art.9 D.Lgs. n.272, 1989, i CPA “devono assicurare la permanenza dei minorenni senza caratterizzarsi come strutture di tipo carcerario e sono istituiti, ove possibile, presso gli uffici giudiziari minorili. In nessun caso possono essere situati all’interno di istituti penitenziari”. Gli scopi fondamentali dei CPA sono:
• accogliere il minore e garantirne la permanenza fino all’udienza di convalida;
• svolgere attività di mediazione tra le esigenze penali e quelle educative del minore;
• fornire all’Autorità giudiziaria le prime informazioni conoscitive generali sul minore;
• dare le prime indicazioni su una possibile ipotesi di intervento.
Tra le figure professionali che operano all’interno del Servizio vi sono: assistenti sociali, psicologi, polizia penitenziaria e professionalità pedagogiche.

Istituti Penali per i Minorenni – IPM
Sono strutture volte ad assicurare l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria quali la custodia cautelare o l’espiazione di pena dei minorenni autori di reato. Gli I.P.M. presenti nel territorio italiano sono 17 ed ospitano minorenni o giovani adulti (18-24 anni). Tali strutture hanno un’organizzazione funzionale ad un’azione educativa sempre più integrata con gli altri Servizi della Giustizia Minorile e del territorio. Al loro interno possono essere presenti sezioni maschili e femminili, che devono essere organizzate in modo tale da garantire il rispetto di pari opportunità e trattamento tenendo conto, tuttavia, delle peculiarità di genere. In accordo con la normativa vigente e al fine di attivare processi di maturazione dei minorenni e di promuovere l’azione rieducativa ed il reinserimento sociale, vengono organizzate dagli Istituti attività scolastiche, di formazione professionale, di animazione culturale, sportiva, ricreativa e teatrale, che si concretizzano tramite collaborazioni con la comunità esterna. Al fine di materializzare i principi sopracitati, gli IPM si servono di una pluralità di figure professionali (educatori, agenti di polizia penitenziaria, mediatori culturali ecc.).
Con l’entrata in vigore del cosiddetto Decreto Caivano è stata introdotta la possibilità per le Direzioni degli IPM di chiedere l’allontanamento del ragazzo che ha compiuto 21 anni, proponendo quindi il suo trasferimento presso un istituto di pena per adulti.

Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni – USSM
Gli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (USSM) forniscono assistenza ai minorenni autori di reato in ogni stato e grado del procedimento penale e predispongono la raccolta di elementi conoscitivi concernenti i soggetti minorenni per l’accertamento della personalità, su richiesta del Pubblico Ministero, fornendo concrete ipotesi progettuali e concorrendo alle decisioni dell’Autorità giudiziaria. Questi uffici si attivano nel momento in cui, a seguito di denuncia, un minore entra nel circuito penale; gli USSM accompagnano il ragazzo durante tutto il suo percorso penale. Nello specifico, avviano l’intervento in tempo reale per il minore in stato di arresto e di fermo, seguono il progetto educativo del minore in misura cautelare non detentiva, gestiscono la misura della sospensione del processo e della messa alla prova e, complessivamente, svolgono attività di sostegno e controllo nella fase di attuazione delle misure cautelari, alternative e sostitutive concesse ai minori, in accordo con gli altri servizi minorili della Giustizia e degli enti locali. All’interno del servizio operano in particolare assistenti sociali.
L’USSM ricopre un ruolo fondamentale durante la fase di sospensione del processo e della messa alla prova: la procedura per la messa alla prova, infatti, ha inizio con la richiesta da parte del giudice all’USSM di elaborare un progetto educativo destinato al minore. Segue una valutazione periodica della personalità del reo e, successivamente, con una nuova udienza, il giudice può giungere alla decisione di dichiarare l’estinzione del reato (nel caso in cui la prova dia esito positivo) oppure può provvedere alla prosecuzione del processo penale (esito negativo della prova).

Comunità
Nelle Comunità si assicura l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria nei confronti di minorenni autori di reato, ai sensi degli artt. 18, 18-bis, 22, 36 e 37 del D.P.R. 448/88.
Le comunità residenziali disponibili all’accoglienza di minori o giovani adulti dell’area penale sono oggi 628. Solo tre di esse – che si trovano a Bologna, Catanzaro e Reggio Calabria – sono pubbliche, gestite dal Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia. Le altre 625 sono comunità private che il Ministero accredita a svolgere tale compito, inserendole in un elenco aperto consultabile sul sito ministeriale e aggiornato ogni sei mesi .
Gli obiettivi fondamentali del collocamento presso le Comunità sono:
• stabilire un programma educativo destinato al minore che tenga presente tanto delle sue esigenze quanto delle sue risorse personali, familiari e sociali;
• favorire la responsabilizzazione e la consapevolezza del minore rispetto alla misura restrittiva della libertà personale;
• individuare e valorizzare le risorse del minore;
• offrire al giudice informazioni che contribuiscano ad una scelta conforme il più possibile alle esigenze educative del ragazzo;
• preparare le dimissioni del minore dalla Comunità e curarne l’eventuale invio ad altre strutture;
• restituire il minore al suo contesto sociale.
Secondo quanto affermato nel D.Lgs 272, 1989 le Comunità devono rispettare tre criteri fondamentali relativi alla gestione:
• organizzazione di tipo familiare, che preveda anche la presenza di minorenni non sottoposti a procedimento penale (con capienza di massima di dieci unità, limite che facilita e garantisce una conduzione e un clima educativamente significativi);
• presenza di operatori professionali specializzati in diverse discipline (assistenti sociali, mediatori culturali, ecc.), che accompagnano e sostengono il minore durante il proprio percorso;
• collaborazione di tutte le istituzioni interessate e utilizzo delle risorse del territorio.
L’ingresso del minore in comunità è obbligatoriamente accompagnato da una documentazione che attesta la sua precedente esperienza al fine di garantire una certa continuità del percorso all’interno del circuito penale. L’inserimento del ragazzo è seguito dalla definizione di un “Progetto Educativo Individualizzato” (P.E.I.): si tratta di un piano educativo che viene stilato prestando attenzione alla personalità del minore e alla valorizzazione dei processi di responsabilizzazione e risocializzazione del ragazzo, nonché nel rispetto della garanzia dei suoi diritti ed esigenze educative. Il progetto, elaborato dopo un’attenta osservazione del minore nella sua globalità, dovrà indicare:
• gli obiettivi che il minore deve raggiungere;
• le attività che dovrà svolgere;
• le indicazioni sulle modalità di svolgimento delle attività;
• le modalità di verifica, utili all’Autorità giudiziaria.

Centri Diurni
Sono strutture non residenziali che offrono attività dirette ai minori entrati nel circuito penale e di accoglienza di minori devianti o a rischio di disagio sociale non sottoposti a procedimento penale. Sono destinati all’esecuzione delle misure cautelari di prescrizioni e permanenza in casa, delle misure alternative dell’affidamento in prova al servizio sociale (detenzione domiciliare e semilibertà), delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata. I servizi diurni hanno finalità educative, di studio, di formazione-lavoro, di tempo libero e di animazione, attraverso programmi mirati individuali. Sono organizzati e gestiti dai Centri per la Giustizia minorile in collaborazione con gli enti locali, e vi lavorano operatori professionali delle diverse discipline. Vi possono accedere anche minori non sottoposti a procedimenti penali. Annessi alle Comunità Ministeriali, ne condividono il personale e la Direzione. All’interno dei Centri Diurni si svolgono attività legate all’esecuzione di misure alternative e sostitutive alla detenzione: laboratori di formazione professionale, attività ricreative e sportive, programmi di studio, di formazione al lavoro e di tipo educativo.

Prescrizioni
Se non risulta necessario fare ricorso ad altre misure cautelari, il giudice può impartire al minore specifiche prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro, ovvero ad altre attività utili per la sua educazione, le quali perdono efficacia decorsi due mesi dal provvedimento con il quale sono state impartite. Nel caso di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni, il giudice può, invece, disporre la misura cautelare della permanenza in casa.

Permanenza in casa
Con il provvedimento che dispone la permanenza in casa il giudice prescrive al minore di rimanere presso l’abitazione familiare o altro luogo di privata dimora, potendo anche imporre limiti o divieti di comunicazione con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono. Con la misura della permanenza in casa, tuttavia, il giudice può anche, con separato provvedimento, consentire al minore di allontanarsi dall’abitazione per esigenze legate alle attività di studio o di lavoro, ovvero ad altre attività utili per la sua educazione. Nel caso dell’applicazione di tale misura cautelare i genitori o coloro nella cui abitazione è disposta la permanenza vigilano sul comportamento del minore. Nel caso di gravi e ripetute violazioni degli obblighi imposti o nel caso di allontanamento ingiustificato dall’abitazione, il giudice può disporre la misura del collocamento in comunità.

Collocamento in Comunità
Con il provvedimento che dispone tale misura, il giudice ordina che il minorenne sia affidato a una Comunità pubblica o comunque autorizzata dal Ministero, imponendo eventuali specifiche prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro, ovvero ad altre attività utili per la sua educazione. Con l’entrata in vigore del cosiddetto Decreto Caivano si prevede che la misura della custodia cautelare in caso di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni imposte in sede di collocamento del minore in comunità o di allontanamento ingiustificato dalla comunità (la cosiddetta misura dell’aggravamento) possa essere disposta per i delitti puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni (non più 5) e senza limiti di tempo (mentre in precedenza la durata massima era di un mese).

Custodia cautelare
La custodia cautelare, che consiste nella custodia in IPM, è una materia su cui il Decreto Caivano ha inciso profondamente. Le principali novità introdotte sono:
l’ampliamento dei presupposti di applicazione della misura precautelare dell’accompagnamento a seguito di flagranza (con successivo trattenimento del minore fino a dodici ore), ora possibile in relazione ai delitti non colposi per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni (in luogo dei precedenti cinque anni) e per alcuni reati tassativamente indicati (lesione personale, furto, danneggiamento aggravato, alterazione di armi e fabbricazione di esplosivi non riconosciuti, porto abusivo di armi od oggetti atti ad offendere).
l’abbassamento a quattro anni (in luogo dei precedenti cinque) del massimo edittale di pena detentiva previsto ai sensi dell’art. 19 c. 4 per l’applicazione al minore di misure cautelari personali diverse dalla custodia cautelare;
l’abbassamento a sei anni (in luogo dei precedenti nove) del massimo edittale di pena detentiva previsto dall’art. 23 per l’applicazione al minore della custodia cautelare, che diviene altresì applicabile, anche al di fuori dei limiti edittali, per taluni reati specificamente individuati; viene poi diminuita la misura della riduzione dei termini di durata massima previsti dall’art. 303 cod. proc. pen., fissata rispettivamente a un terzo (in luogo della metà) per i reati commessi da minori degli anni diciotto e alla metà (in luogo dei due terzi) per quelli commessi da minori degli anni sedici
Il giudice può disporre la custodia cautelare: a) se sussistono gravi e inderogabili esigenze attinenti alle indagini, in relazione a situazioni di concreto pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova; b) se l’imputato si e’ dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga; c) se, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, vi è il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quelli per cui si procede.

Percorso di rieducazione del minore
Il cd. Decreto Caivano ha introdotto una nuova forma di definizione anticipata del procedimento. Il nuovo art. 27-bis è volto a regolare un particolare “Percorso di rieducazione del minore”, avviato su iniziativa del pubblico ministero e subordinato “alla condizione che il minore acceda a un percorso di reinserimento e rieducazione civica e sociale sulla base di un programma rieducativo che preveda, sentiti i servizi minorili di cui all’articolo 6 e compatibilmente con la legislazione sul lavoro minorile, lo svolgimento di lavori socialmente utili o la collaborazione a titolo gratuito con enti no profit o lo svolgimento di altre attività a beneficio della comunità di appartenenza, per un periodo compreso da uno a sei mesi”. La norma prevede che, una volta elaborato il programma rieducativo, il giudice, sentito il minore e l’esercente la responsabilità genitoriale, con ordinanza fissi la durata del percorso di rieducazione e sospenda il procedimento; in caso di esito positivo del percorso, pronuncia sentenza di non luogo a procedere dichiarando l’estinzione del reato, mentre in caso di valutazione negativa trasmette gli atti al p.m. per la prosecuzione del procedimento penale. Tanto l’esito negativo del percorso, quanto la sua interruzione ingiustificata o il rifiuto del minore di accedervi precludono il successivo ricorso all’istituto della sospensione del processo con messa alla prova ai sensi degli artt. 28 e 29 del medesimo d.P.R. 448/1988.

Messa alla prova
L’art. 28 del D.P.R. 448/1988 detta le norme speciali applicabili ai minori in tema di probation processuale, la cui funzione va individuata sostanzialmente nella sospensione del procedimento instaurato a carico del minore, confidando nella sua capacità di responsabilizzazione e di ottemperare alle prescrizioni ed al percorso di messa alla prova, con l’ausilio e sotto il controllo dei servizi sociali.
Nel procedimento minorile l’istituto in questione rappresenta l’esempio tipico di risposta individualizzante e con finalità educativa per il minore deviante, che si configura come un patto tra il minore e l’istituzione, creato ad hoc sulla base delle sue particolari esigenze di vita e del suo contesto socio-familiare e assunto dal minore consapevolmente.
La sospensione del procedimento può essere disposta per uno o tre anni, in relazione alla pena prevista per il reato contestato al minorenne indagato, periodo durante il quale si procede alla verifica dell’andamento del percorso intrapreso dal minore, sotto la supervisione dei servizi sociali cui il minore viene affidato.
L’esito positivo della prova estingue il reato a carico del minore, in considerazione della priorità che l’ordinamento minorile riconosce al recupero del minore rispetto alla pretesa punitiva.
L’esito negativo della messa alla prova, che può riscontrarsi in occasione di gravi violazioni alle prescrizioni impartite con il progetto educativo, comporta la revoca della misura e la prosecuzione del processo.
L’istituto del probation processuale è stato di recente introdotto con L.67/2014 anche in favore degli adulti e, sebbene con alcune differenze rispetto all’analogo istituto minorile, ne persegue analoghe finalità.
La Riforma Cartabia (d.lgs. n.150/22) è intervenuta ampliando il c.2 dell’art.28 (D.P.R. 488/88) e prevedendo la possibilità che il giudice formuli l’invito nei confronti del minore a partecipare ad un programma di giustizia riparativa, ove ne ricorrano le condizioni.

Perdono giudiziale
Se per il reato commesso dal minore la legge prevede una pena restrittiva della libertà personale non superiore a 2 anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a 5 euro, l’art. 169 c.p. consente al giudice di astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio, quando, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art. 133 c.p., presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati.

La liberazione condizionale
L’istituto, previsto dall’art. 21 del R.D.L. 1404 del 1934, può essere concesso al minorenne in espiazione pena “in qualunque momento dell’esecuzione e qualunque sia la durata della pena detentiva inflitta”.
La concessione di tale misura alternativa alla detenzione è subordinata alla verifica del “sicuro ravvedimento”, analogamente a quanto previsto dall’art. 176 c.p. nell’omologo istituto previsto per gli adulti, rispetto al quale, peraltro, non si applica l’ulteriore criterio relativo alla verifica dell’adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato, in quanto non applicabile ai minorenni. Ciò lo si desume dalla duplice considerazione della ordinaria mancanza di redditi autonomi in capo ai minorenni autori di reato e dall’impossibilità di costituzione di parte civile nel procedimento minorile.
Altra differenza che connota la misura di cui all’art. 21 R.D.L. del 1934 riguarda il diverso regime di misure applicabili in conseguenza della liberazione condizionale. Mentre gli adulti, a seguito di liberazione condizionale, vengono sottoposti alla libertà vigilata, ai minorenni si applicano le diverse misure di cui all’art. 36 D.P.R. 448/1988. In particolare, ai minori di diciotto anni si applicano le misure di cui agli artt. 20 e 21 del D.P.R. 488/1988, consistenti nelle prescrizioni o nella permanenza in casa; mentre agli ultra diciottenni si applica la misura del riformatorio giudiziario, da eseguirsi nelle forme del collocamento in comunità, come dal combinato disposto di cui agli artt. 36 e 22 del D.P.R. 488/1988.
Il positivo esperimento del periodo di liberazione condizionale comporta l’estinzione della pena; viceversa, nel caso in cui il minore commetta altro delitto, si procede alla revoca del beneficio.
Detto istituto, che rispecchia appieno le finalità educative della pena irrogata al minore deviante, dovrebbe sicuramente essere previsto quale misura alternativa alla detenzione nell’ ordinamento penitenziario minorile, consentendo una valida opportunità al minore che dimostri un ravvedimento di usufruire in ogni tempo della misura alternativa al carcere.

Affidamento in prova al servizio sociale
L’ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale, come delineato nell’art. 47 O.P., disciplina l’ipotesi del probation penitenziario, previsto soprattutto in regime di esecuzione della pena per gli adulti. L’affidamento in prova al servizio sociale di cui all’art. 47 dell’O.P. assume una chiara connotazione penitenziaria ed esecutiva, ed è subordinato alla ricorrenza dei limiti di pena da scontare, anche residua di maggior pena, pari a tre anni, ed è applicabile nelle ipotesi in cui il condannato possa beneficiare ex art. 656 co.5 c.p.p., anche della semilibertà, della detenzione domiciliare o della sospensione della pena ex art. 90 D.P.R. 309/90.
Oltre ai limiti di pena, la concessione della misura di cui all’art. 47 O.P. è subordinata all’osservazione del comportamento del detenuto, oltre che alla valutazione del programma di affidamento che contribuisca alla rieducazione del condannato medesimo e all’esigenza di prevenzione del pericolo di commissione di ulteriori reati.
Un caso speciale di affidamento in prova ai servizi sociali si ravvisa nell’art. 94 D.P.R.309/90, in relazione a condanne entro sei anni, inflitte a carico di persone tossicodipendenti o alcoldipendenti, dei quali se ne accerti lo stato attuale di dipendenza, laddove ne facciano istanza e siano già sottoposte o vogliano sottoporsi a programma terapeutico.
Come si è visto sopra, nel procedimento minorile si rileva con più frequenza l’accesso all’istituto della messa alla prova, per il quale, peraltro, non sono previsti limiti di pena in relazione al reato commesso. Tuttavia, l’affidamento in prova ex art 47 O.P. potrà trovare applicazione quale ipotesi residuale per i minorenni soprattutto nelle ipotesi in cui l’esito della messa alla prova, effettuata nel corso del procedimento sospeso, non sia stato positivo e si consenta successivamente la misura alternativa dell’affidamento in prova nel corso dell’esecuzione della pena comminata. In tale caso l’affidamento in prova ai servizi sociali va eseguito con le modalità di cui agli artt. 12 e 24 del D.lgs. 272/89, che prevedono servizi polifunzionali diurni e l’esecuzione tramite i servizi minorili.

Detenzione domiciliare
La detenzione domiciliare, prevista dall’art.47 ter O.P., è una misura alternativa alla detenzione inframuraria, che consente di espiare la pena presso la propria abitazione o altro luogo di pubblica cura, assistenza o accoglienza. La misura in oggetto è applicabile ai condannati che abbiano compiuto 70 anni; può essere disposta anche nei confronti di coloro che debbano scontare una pena non superiore a 4 anni, anche se residua di pena maggiore; ovvero a carico di madri incinte o padri –ma quando la madre sia deceduta o inabile- di prole inferiore ai dieci anni; nei confronti di condannati ultrasessantenni parzialmente inabili, ovvero di persone affette da gravi patologie, nonché nei confronti di infraventunenni per esigenze di salute, studio, lavoro e famiglia.
Inoltre, la detenzione domiciliare, al di fuori dei limiti di pena previsti dal comma 1, può essere concessa anche nel caso in cui non risulti possibile l’affidamento in prova ai servizi sociali e residuino due anni di pena da scontare; ovvero, sempre dei limiti di cui al comma 1, può essere disposta nel caso di rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli art.146-147 del c.p.

Detenzione domiciliare nei confronti di madri con prole
Oltre all’ipotesi di cui all’art. 47 ter, co. 2, O.P., in relazione alle madri detenute, la L. 62/2011 ha introdotto la possibilità di scontare la detenzione domiciliare, oltre che nell’abitazione o in altro luogo di pubblica cura e assistenza, anche in case famiglie protette.
Peraltro, in favore delle detenute madri di prole inferiore ai dieci anni, è stata introdotto la previsione della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47 quinquies O.P. che, al di fuori dei limiti di pena di cui all’art. 47 ter, consente alle predette di scontare la pena in regime domiciliare o in altro luogo di cura e di assistenza, in concomitanza di tre requisiti: l’aver scontato almeno un terzo della pena o 15 anni nel caso di ergastolo, la possibilità di ristabilire la convivenza con la prole e la insussistenza del concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
Inoltre, sempre con riferimento alle detenute madri, salva l’ipotesi di condanna per i reati di cui all’art. 4 bis dell’O.P. e laddove sia stata espiata almeno un terzo della pena o 15 anni di reclusione, la detenzione domiciliare può avvenire presso un istituto di a custodia attenuata per detenute madri, ovvero nella propria abitazione allorché non sussista il pericolo di fuga e di commissione di ulteriori delitti, ovvero in luogo di assistenza e di cura, al fine di consentire alle medesime di provvedere alla cura della prole. Nel caso di impossibilità di espiare la detenzione domiciliare speciale presso la propria dimora, è possibile nei predetti casi, la detenzione presso case famiglia protette.
Nel caso di compimento del decimo anno di età della prole, è consentito alle detenute madri di ottenere la proroga della detenzione domiciliare speciale o di essere ammesse all’assistenza dei figli minori all’esterno, sulla base delle valutazioni sul comportamento della detenuta, effettuata dal servizio sociale, e sulla base della durata della misura e dell’entità della pena residua.
L’art. 47 quinquies, al co. 7, estende la predetta misura anche al padre detenuto, se la madre sia deceduta, impossibilitata all’accudimento della prole e non vi siano altri affidatari.
Peraltro, sempre a tutela delle donne incinte o madri con prole inferiore a 6 anni, la L.62/2011 ha previsto che, salva l’ipotesi di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, non può esser disposta la custodia cautelare, così come disposto dall’art. 275 c.p.p.
Inoltre, l’art. 285 bis c.p.p., introdotto dalla novella 62/2011, ha previsto che nelle ipotesi in cui ricorrano eccezionali esigenze cautelari le donne incinte o madri di prole inferiore a 6 anni debbano essere ristrette in custodia cautelare presso istituti a custodia attenuata per detenute madri.
I medesimi benefici possono essere concessi al padre sottoposto a regime di custodia cautelare, laddove la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.
La L.62/2011 ha previsto, all’art. 21 ter O.P., in favore delle madri condannate, imputate o internate, il permesso di recarsi a far visita al figlio minore infermo nonché ad assistere la prole inferiore a 10 anni per le visite specialistiche. Detta possibilità è estesa anche al padre nel caso di madre deceduta o impossibilitata.
La normativa in favore delle detenute madri ha subito una innovazione già con la L.40/2001, che ha inizialmente introdotto l’art. 47 quinquies O.P., prevedendo un più ampio accesso alle misure alternative al carcere.
Con la L.62/2011 è stata prevista l’istituzione di due tipologie di strutture per le detenute madri, ovvero gli Istituti a custodia attenuata (Icam), facenti capo all’Amministrazione penitenziaria, e le case protette, facenti capo ai servizi sociali e agli enti locali.
La normativa in questione, tuttavia, presenta problemi applicativi soprattutto per le detenute straniere, che, in mancanza di fissa dimora, non potranno accedere al regime di detenzione domiciliare.
A tal fine, è stato siglato un Protocollo d’intesa nel marzo 2014, tra il Ministero della Giustizia, l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza e l’associazione ‘Bambinisenzasbarre ONLUS’, proprio al fine di favorire la realizzazione delle finalità delle leggi in questione e per favorire i diritti dei minori figli di detenute.
In Italia vi sono tre Istituti penitenziari minorili destinati alle detenute donne, quello di Nisida a Napoli, quello di Casal del Marmo a Roma e quello di Pontremoli, tutti attrezzati per ospitare i figli minori delle detenute.

Misure alternative per persone malate di AIDS o altre gravi malattie
L’art. 47 quater O.P., con riferimento ai condannati affetti da AIDS o da altre gravi immunodeficienze, prevede l’applicazione dell’affidamento in prova ai servizi sociali e della detenzione domiciliare anche al di fuori dei limiti di pena di cui agli artt. 47 e 47 ter dell’O.P., laddove il condannato voglia sottoporsi a programma di cure presso unità ospedaliere specializzate. Detta previsione va letta in relazione alle norme sul differimento dell’esecuzione della pena o delle misure di sicurezza, di cui agli artt. 146 e 211 bis del c.p.

Detenzione domiciliare speciale
Altra ipotesi di detenzione domiciliare speciale è stata introdotta dalla L. 199/2010, c.d. legge “svuotacarceri”, che, al fine di consentire di ridurre il fenomeno del sovraffollamento carcerario, ha previsto la misura alternativa dell’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno, anche se residuali rispetto a pena superiore. Detta misura si pone sostanzialmente come misura a tempo e con finalità di far fronte all’emergenza carceraria. Con la successiva Legge 211 del 2011 si è proceduto ad ampliare l’ambito applicativo della misura in questione, prevedendo l’innalzamento del termine di pena da scontare da un anno a diciotto mesi.

La semilibertà
La semilibertà, come disciplinata negli artt. 48 e ss. O.P., è una misura alternativa alla detenzione prevista nelle ipotesi di pene brevi (arresto o reclusione fino a sei mesi); nelle ipotesi di pene fino a tre anni che consentirebbero l’applicazione dell’affidamento in prova ai servizi sociali e per pene lunghe superiori a tre anni.
L’applicazione della misura in questione richiede anche la verifica di requisiti di carattere soggettivo circa la verifica sui progressi compiuti nel trattamento, come previsto nell’art. art. 50 O.P.
L’istituto in questione si pone in ottica intermedia rispetto alla libertà condizionale.
L’applicazione della semilibertà ai minorenni appare sostanzialmente riconducibile soltanto all’ipotesi di pene superiori ai tre anni, ben potendo i minori usufruire di altre misure più favorevoli nel caso di pene fino ai tre anni.
La semilibertà, come prevista nell’O.P. destinato all’esecuzione nei confronti degli adulti, riscontra un’evidente anomalia nell’ipotesi di applicabilità ai minorenni, nei cui confronti la libertà condizionale prevista dalla norma speciale dell’art. 21 R.D.L. del 1934 rappresenta sicuramente un regime di maggior favore.
Dunque, l’ipotesi più probabile di applicazione della semilibertà ai minorenni si potrebbe ravvisare nel caso di espiazione della pena detentiva a seguito di conversione di sanzioni sostitutive scaturenti dalla violazione delle prescrizioni, così come si evince dalla lettura del combinato disposto di cui agli artt. 66 e 67 L.689/81, ed alla luce della sentenza della Corte Cost. n. 109/1997, che ha escluso per i minorenni il divieto di accedere all’affidamento in prova ed alla semilibertà, di cui all’art. 67 L.689/81.
Inoltre, sulla scorta di un’interpretazione logico-sistematica, anche in linea con le finalità precipue del procedimento minorile e del differente regime di liberazione anticipata di cui alla L. 1404/1934, non può non ritenersi che la semilibertà ai minori possa essere concessa anche prima dell’espiazione di almeno metà della pena, anche nell’ipotesi di pene detentive lunghe.

La liberazione anticipata
Detta misura, prevista nell’art. 54 O.P. sebbene ricompresa tra le misure alternative alla detenzione, tuttavia rappresenta una semplice riduzione di pena. L’istituto in questione prevede, nel caso in cui il condannato abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione, la riduzione di pena di 45 giorni ogni semestre di detenzione scontata.
Con il D.L. 23.12.2013, n. 146, convertito con modificazioni in L. 21.02.1014, n. 10, è stata prevista una liberazione anticipata speciale, applicabile per due anni dall’entrata in vigore del decreto legge, che prevede una detrazione di pena pari a 75 giorni per ogni singolo semestre di pena scontata.
La liberazione anticipata non può essere concessa ai condannati per reati di cui all’art. 4 bis dell’O.P., a coloro che sono stati ammessi all’affidamento in prova ai servizi sociali ed alla detenzione domiciliare, e a coloro che sono stati ammessi all’esecuzione della pena presso il domicilio o che si trovino agli arresti domiciliari ex art.656, co. 10, c.p.p.

Permessi premio
I permessi premio rientrano nella categoria degli istituti premiali concessi ai condannati in espiazione pena che tengano una regolare condotta e non risultino socialmente pericolosi.
La L. 354/1975 prevede, all’art. 30 ter, una disciplina differenziata per i minorenni devianti, che possono così usufruire dei permessi con modalità più favorevoli rispetto agli adulti, in quanto possono essere concessi per un massimo di trenta giorni ogni volta e per una complessiva durata di cento giorni per ogni anno di espiazione.
Inoltre, con riferimento ai minori, a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 450/1998, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 ter, co. 4, lett. c) O.P., laddove prevede che la concessione dei permessi premio possa essere data soltanto a seguito dell’espiazione di metà della pena, per i condannati di reati di cui all’art. 4 bis , co. 1, 1 ter e 1 quater O.P.; ed a seguito della sentenza Corte Cost. n.403/1997, ne è stata dichiarata l’incostituzionalità del 5 co. del medesimo art. 30 ter, laddove prevede la concessione dei permessi soltanto decorsi due anni dalla commissione di altro fatto di reato, per il quale sia intervenuta condanna nel corso dell’espiazione della pena o di misure restrittive in corso.
Peraltro, da un’interpretazione logica di dette sentenza, deve ritenersi fruibile il permesso premio anche per i minori condannati per reati diversi da quelli ex art. 4 bis O.P., senza che per essi operi il limite di una sentenza di condanna superiori ai tre anni.

Divieti di concessione di benefici penitenziari
L’art. 4 bis dell’O.P. individua le ipotesi di esclusione dai benefici penitenziari e dalle misure alternative, fatta eccezione per la liberazione anticipata, in occasione della commissione di particolari reati di allarme sociale.
La norma in questione prevede l’inapplicabilità dei benefici in senso lato ai condannati per delitti di cui agli artt. 416 bis e 630 c.p., 74 D.P.R. 309/90, artt.600, 600 bis, ter, 601, 602 e 609 octies c.p., salvo nel caso in cui i condannati collaborino con la giustizia; ovvero ai condannati per i medesimi delitti di cui al primo comma cui sia stata riconosciuta l’attenuante del risarcimento del danno, della minima partecipazione o abbiano commesso un reato diverso da quello voluto, laddove manchi un collegamento attuale con la criminalità organizzata; ovvero ai condannati di altri gravi delitti, quali quelli di cui agli artt. 575, 628 co. 3, 629 co.2, 609 bis, quater, quinquies e octies c.p., 73 D.P.R. 309/90, e art. 12 del D.Lvo n. 286/98, sempre laddove manchino elementi per ipotizzare un collegamento attuale con associazioni criminali; nonché ai condannati per delitti sessuali di cui agli art. 609 bis e ss, c.p., l’applicabilità dei benefici è subordinata ai risultati dell’osservazione scientifica condotta per un anno sulla personalità del detenuto e dell’internato.
Per espressa previsione dell’art. 14, co. 4, del D.L. 152/91, detti divieti si applicano anche ai condannati minorenni.
A seguito della sentenza della Corte Cost. n. 436/1999, che è intervenuta per dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 58 quater O.P. nella parte in cui prevede l’applicabilità del limite di tre anni per la concessione dei benefici anche nei confronti dei minori condannati, deve ritenersi non applicabile ai condannati ed internati minorenni anche il limite temporale dettato nella disciplina relativa ai permessi premio, alla semilibertà, alla libertà condizionale ed al caso della condanna di minorenne per sequestro di persona che abbia cagionato la morte della vittima. In tale ottica, va rilevato anche che non si estendono ai minorenni i divieti di benefici previsti per l’evasione e per il condannato cui sono stati revocati i benefici per “cattiva condotta”.
Le argomentazioni della Corte Costituzionale, a tal proposito, sono incentrate sull’incompatibilità di divieti automatici previste dalle norme in questione in relazione alle finalità del procedimento minorile, fondate su una valutazione individualizzata del minore deviante e sulla consequenziale discrezionalità del giudice in ordine alla valutazione del percorso trattamentale intrapreso, così come già esposto in materia di interventi della Corte Costituzionale.
Attualmente, l’unica questione aperta resta l’applicabilità del limite di un anno anche per i minorenni autori di reati di natura sessuale, di cui al co. 1 quater dell’art. 4 bis O.P., dovendosi ritenere non confacente al regime di valutazione individualizzante previsto per i minorenni. Nel caso in esame, sebbene sia stata sollevata la questione di illegittimità costituzionale, unitamente ad altri profili, la Consulta ha rimesso gli atti al giudice rimettente, non affrontando la questione specifica, in quanto, nel frattempo, il legislatore, con la L.94/2009, aveva ritenuto di eliminare il riferimento alla necessaria compresenza dei due requisiti della collaborazione e dell’osservazione per i detenuti condannati per reati sessuali.

La riabilitazione speciale
Per i minori devianti il codice detta una disciplina speciale in tema di riabilitazione, che differisce da quella prevista dagli artt. 174-181 c.p.
Infatti, l’art.24 del R.D.L. n. 1404/1934 prevede che per i condannati minorenni la riabilitazione può essere richiesta e disposta anche d’ufficio fino al compimento del venticinquesimo anno di età, sia in relazione a sentenze di condanna che di proscioglimento, senza essere soggetta a condizioni e a limiti temporali.
Detta disciplina va poi raccordata con le disposizioni sul casellario giudiziale, come previste all’art. 15 del D.P.R. 448/88, in ragione delle quali, al compimento del diciottesimo anno di età, vengono trasmesse al Tribunale ordinario solo le iscrizioni relative a sentenze di condanna a pene detentive e quelle di concessione della sospensione condizionale della pena. Con riferimento alla sentenza di perdono giudiziale, invece, si provvede alla cancellazione al compimento del ventunesimo anno di età.

Sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi
Le sanzioni sostitutive possono essere comminate al reo in sostituzione di una pena detentiva comunque inferiore ai due anni e sono previste dal capo III della L. 689/1981. In particolare, l’art. 53 dispone che il giudice, nel pronunciare la sentenza di condanna, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di due anni, può sostituire tale pena con quella della semidetenzione; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla anche con la libertà controllata; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di sei mesi, può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della specie corrispondente.
Il giudice ha la facoltà di scegliere di sostituire alla pena inflitta al reo una pena sostitutiva nei limiti e secondo i modi disposti dalla legge. L’applicazione delle sanzioni sostitutive è affidata quindi al potere decisorio del giudice che può concederle ex officio o su istanza di parte e che possono essere revocate o convertite nel caso in cui il reo violi le prescrizioni previste dalle pene stesse.
Con riferimento al procedimento minorile, l’art. 30 del D.P.R.488/1988 prevede che “Con la sentenza di condanna il giudice, quando ritiene di dover applicare in concreto una pena detentiva non superiore a due anni, può sostituirla con la sanzione della semidetenzione o della libertà controllata, tenuto conto delle esigenze di lavoro o di studio del minorenne nonché delle sue condizioni famigliari, sociali o ambientali”. Al magistrato di sorveglianza compete provvedere sulle concrete modalità esecutive della sanzione, tenuto conto anche delle esigenze educative del minore.
– Semidetenzione: secondo l’articolo 53, primo comma della legge n. 689/81 la semidetenzione è la pena sostitutiva della pena detentiva fino a 2 anni. Ai sensi dell’art. 55 della citata legge la sanzione comporta l’obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno negli istituti penitenziari minorili destinati ai semiliberi situati nel comune di residenza del condannato o in un comune vicino. La misura in questione, poi, impone di seguire per il resto della giornata un programma finalizzato alla risocializzazione del soggetto.
– Libertà controllata: l’articolo 53 primo comma della legge n. 689/81 prevede la possibilità di applicare la libertà controllata come pena sostitutiva delle pene detentive fino a un anno. Ai sensi dell’art. 56 della citata legge è previsto in ogni caso il divieto di allontanarsi dal comune di residenza, salvo apposita autorizzazione concessa di volta in volta ed esclusivamente per motivi di lavoro, di studio, di famiglia o di salute.
La misura in questione consente al minore di restare nel proprio ambiente e nel contempo di essere sottoposto ad un programma educativo, sotto il controllo e la supervisione dei servizi sociali, che comporta prescrizioni limitative della libertà di movimento, di dimora, o di frequentazione di luoghi o persone, nonché prescrizioni attinenti all’obbligo di rapporti con i servizi sociali, alle modalità di lavoro o di studio, ovvero rapporti con familiari e vittime del reato.
– Pena pecuniaria: la pena pecuniaria è la pena sostitutiva delle pene detentive fino a sei mesi. La conversione della pena detentiva avviene attraverso dei rapporti di equivalenza per cui un giorno di detenzione equivale a euro 250,00 di multa (ex art. 135 c.p.) o di ammenda a seconda che si tratti di delitto o contravvenzione. Sulla questione dell’applicabilità o meno ai minori della sanzione sostitutiva in esame non vi è accordo in dottrina e giurisprudenza. La Corte di Cassazione ha affermato che l’omesso riferimento all’art. 51 della L. 689/81 non comporta l’inapplicabilità dell’istituto in questione, anche perché si creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti del minore non ammesso a detto beneficio. Per contro, la dottrina sostiene che l’art. 30 del D.P.R. 488/88 detta una normativa speciale delle sanzioni sostitutive per i minori, escludendo opportunamente l’applicazione della pena pecuniaria di cui all’art. 51 L. 689/81, la cui applicazione, peraltro, renderebbe impossibile l’intervento di recupero del minore.
Nel procedimento minorile, dunque, in ragione della diminuente di cui all’art. 98 c.p., della concessione delle attenuanti generiche, prevalenti anche sulle eventuali aggravanti contestate, nonché della possibilità che in udienza preliminare la pena possa essere ridotta anche della metà rispetto al minimo edittale, il campo di applicazione delle predette misure riguarda anche reati di notevole gravità.
Peraltro, nel caso di condannati minorenni, non si applicano i limiti soggettivi ed oggettivi di cui agli artt. 59 e 60 della l.689/81, come avallato dalla sentenza della Corte Cost. n. 16 del 18.02.1998, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’applicazione delle condizioni soggettive di cui all’art. 59 anche ai minorenni.
La Riforma Cartabia (d.lgs. n.150/22) con l’intento di dar vita a strumenti più efficaci, in termini di minor ricorso al carcere e di deflazione del carico giudiziario, ha modificato la disciplina, introducendo le nuove pene sostitutive e abrogando gli istituti della semidetenzione e della libertà controllata.

Pene sostitutive
Le pene sostitutive, disciplinate dall’art. 30 del D.P.R. 448/88, sono subentrate alle sanzioni sostitutive, in seguito alla modifica introdotta dalla Riforma Cartabia. Quest’ultima, oltre a cambiare la denominazione, definendole formalmente “pene” al pari di quelle detentive, ha esteso da due a quattro anni il tetto di pena massimo per potervi accedere e ha eliminato gli istituti della semidetenzione e della libertà controllata attingendo alla normativa in materia di misure alternative alla detenzione.
Nello specifico, l’articolo 30 del D.P.R. 448/88 prevede oggi che il giudice, in sede di condanna, possa sostituire una pena detentiva non superiore a quattro anni con la semilibertà o con la detenzione domiciliare; una pena detentiva non superiore a tre anni, se vi è il consenso del minore non più soggetto ad obbligo di istruzione, con il lavoro di pubblica utilità; e una pena detentiva entro il limite di dodici mesi con una pena pecuniaria determinata ai sensi dell’articolo 56-quater della legge 24 novembre 1981, n. 689.
– Semilibertà sostitutiva: la pena sostitutiva della semilibertà prevede un obbligo di permanenza di almeno otto ore in istituto di pena e stabilisce che la residua parte della giornata sia occupata dallo svolgimento di attività di lavoro, di studio, di formazione professionale o comunque utili alla rieducazione e al reinserimento sociale secondo un programma di trattamento predisposto nel caso dei minori dall’USSM.
– Detenzione domiciliare sostitutiva: la pena comporta l’obbligo di permanere nella propria abitazione (o nei luoghi indicati dal giudice nel provvedimento) per non meno di dodici ore al giorno, tenuto conto di comprovate esigenze familiari, di studio, di formazione professionale, di lavoro e di salute del condannato e sulla base del programma di trattamento. Nel provvedimento viene altresì determinato il limite minimo di permanenza fuori dal domicilio, il soggetto interessato può lasciare il domicilio per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita e di salute.
– Lavoro di pubblica utilità sostitutivo: rappresenta la prestazione di attività non retribuita in favore della collettività che il soggetto condannato è tenuto a svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, le Città metropolitane, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. La norma prevede che la prestazione lavorativa non possa durare meno di sei ore e non più di quindici la settimana, con lo scopo di non pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’individuo coinvolto.
– Pena pecuniaria: Per determinare l’ammontare della pena sostitutiva il giudice “individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Il valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 2500 euro” e va commisurata in sostanza alle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita del soggetto imputato e del suo nucleo familiare.

Le misure di sicurezza
Anche per i minorenni è previsto il c.d. “doppio binario”, sulla base del quale si applica la pena a seguito dell’accertamento del reato commesso da persona imputabile e capace di intendere e volere, mentre si applica una misura di sicurezza sulla base della pericolosità sociale della persona, anche se non imputabile o non punibile, al fine di consentire recupero sociale della stessa e, nel contempo, di assicurare la difesa sociale della collettività.
La disciplina delle misure di sicurezza è contenuta nel libro I, titolo VIII, del codice penale e va coordinata con le norme speciali dettate dal Capo IV del D.P.R. 488/1988 in materia di minori.
L’art. 202 c.p. dispone l’applicazione della misure di sicurezza nel caso di ricorrenza di un fatto-reato e della pericolosità sociale e criminale del soggetto, desunta da un giudizio prognostico compiuto sulla personalità del medesimo effettuato sulla base dei criteri di cui all’ art.133 c.p., come disposto dall’art. 203 c.p.
In tema di misure di sicurezza, il codice prevedeva l’applicabilità della misura del ricovero nel manicomio giudiziario anche ai minori degli anni 14 ovvero ai minori di età compresa tra i 14 e i 18 anni, nel caso di proscioglimento per infermità psichica e negli altri casi di cui al 1° comma dell’art. 222 c.p.; rispetto a detta norma, tuttavia, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui prevedeva l’applicazione ai minori della predetta misura, con la sentenza n. 324 del 24 luglio 1998.
L’art. 223 c.p. prevede, poi, la misura di sicurezza speciale per i minori presso il riformatorio giudiziario, applicabile, ex art. 36 del D.P.R. 488/1998, soltanto per i delitti di cui all’art. 23 del medesimo D.P.R.
L’art. 224 c.p., invece, consente l’applicazione della misura di sicurezza del riformatorio giudiziale o della libertà vigilata nel caso di commissione di un delitto da parte del minore di anni 14 che sia riconosciuto socialmente pericoloso ovvero nel caso di minore che abbia compiuto i 14 anni, laddove sia stato riconosciuto non imputabile a norma dell’art. 98 c.p. La disposizione in oggetto, sempre sulla base del disposto di cui all’art. 36 del D.P.R. 488/1988, si applica solo nei casi dei delitti di cui all’art. 23 del medesimo decreto. Il secondo comma dell’art. 224 c.p. prevede che, nel caso di delitto non colposo punito con la pena dell’ergastolo e della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, il ricovero del minore presso il riformatorio per un tempo non inferiore a tre anni; detta norma è stata dichiarata incostituzionale con sentenza n. 1 del 20.01.1971, nella parte in cui rende obbligatorio ed automatico il ricovero dell’infraquattordicenne per un periodo di almeno tre anni.
L’art. 225 c.p. prevede nei confronti del minore imputabile, dopo l’esecuzione della pena, l’applicazione della misura di sicurezza del riformatorio giudiziale o della libertà vigilata nel caso di commissione di un delitto, quando sia riconosciuto socialmente pericoloso; stessa misura deve essere applicata al minore che riporti altra condanna per la commissione di un reato nel corso dell’esecuzione della misura di sicurezza applicata per difetto di imputabilità.
Al minore delinquente abituale o professionale o per tendenza deve essere applicata la misura del riformatorio giudiziario (art. 226 c.p.); nel caso di ricovero in riformatorio ordinario, al minore che sia riconosciuto particolarmente pericoloso va applicata la misura del riformatorio speciale (art. 227 c.p.), che di fatto non risultano istituiti.
Le misure di sicurezza applicabili ai minorenni sono soltanto quella libertà vigilata e del riformatorio giudiziario, disponendo l’art. 36 del codice minorile che “La misura di sicurezza della libertà vigilata applicata nei confronti di minorenni è eseguita nelle forme previste dagli articoli 20 e 21…”; in tal caso è applicabile facoltativamente nei casi previsti dall’art. 229 c.p. o obbligatoriamente nei casi previsti dall’art. 330 c.p., ovvero per il minore non imputabile che sia riconosciuto pericoloso per un delitto punito con pena inferiore nel minimo a tre anni (ex art.224 c.p.). La misura è eseguita attraverso l’affidamento ai servizi sociali dell’amministrazione della giustizia, che opereranno con i servizi di assistenza territoriali e mediante l’imposizione di prescrizioni inerenti l’attività di studio o di lavoro
L’art. 36, prevede poi che “la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario è applicata soltanto in relazione ai delitti previsti dall’articolo 23 comma 1 ed è eseguita nelle forme dell’articolo 22”, si applica ai minori non imputabili, ma pericolosi, per reati puniti con pena non inferiore a tre anni (art.224 c.p.) ovvero a quelli dichiarati delinquenti professionali, abituali o per tendenza (art.226 c.p.) ed è eseguita attraverso il collocamento in comunità pubblica o autorizzata.
L’art. 37, inoltre, prevede l’applicazione provvisoria di una misura di sicurezza con la sentenza di non luogo a procedere emessa a norma degli articoli 97 e 98 del codice penale, allorché ricorrano “le condizioni previste dall’articolo 224 del codice penale e quando, per le specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata”. La misura cessa di avere effetto decorsi 30 giorni dalla pronuncia senza che abbia avuto inizio il procedimento previsto dall’articolo 38.
Nell’art. 38 del D.P.R. 488/1988 si delineano le modalità del procedimento per l’applicazione della misura di sicurezza davanti al tribunale per i minorenni che “procede al giudizio sulla pericolosità nelle forme previste dall’articolo 678 del codice di procedura penale e decide con sentenza, sentiti il minorenne, l’esercente la potestà dei genitori, l’eventuale affidatario e i servizi indicati nell’articolo 6. Nel corso del procedimento può modificare o revocare la misura applicata a norma dell’articolo 37 comma 1 o applicarla in via provvisoria. Con la sentenza il tribunale per i minorenni applica la misura di sicurezza se ricorrono le condizioni previste dall’articolo 37 comma 2”.
L’applicazione di una misura di sicurezza può essere disposta anche nel dibattimento con la sentenza emessa a norma degli artt. 97 e 98 c.p. o con la sentenza di condanna, se ricorrono le condizioni previste dall’articolo 37 comma 2.
L’esecuzione delle misure di sicurezza è attribuita al Magistrato di sorveglianza per i minorenni del luogo dove la misura stessa deve essere eseguita, il quale “impartisce le disposizioni concernenti le modalità di esecuzione della misura, sulla quale vigila costantemente anche mediante frequenti contatti, senza alcuna formalità, con il minorenne, l’esercente la potestà dei genitori, l’eventuale affidatario e i servizi minorili. In caso di revoca della misura ne dà comunicazione al Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni per l’eventuale esercizio dei poteri di iniziativa in materia di provvedimenti civili” (art. 40 del D.P.R. 488 del 1988).

Le pene accessorie
Al minore, secondo il disposto di cui all’art. 98 c.p., possono essere applicate, nel caso di una condanna superiore a cinque anni, soltanto la pena accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici, per una durata massima di cinque anni, e la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale.

Le pene pecuniarie
Secondo quanto disposto dall’art. 102 della L. 689/81, nel caso di insolvenza, si attua la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata o, su richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo. Orbene, in considerazione del fatto che la condizione di insolvenza è quella che ordinariamente rappresenta la condizione economica del minore, ancor più opportuna appare la disposizione di cui all’art. 102 della L.689/81, in luogo dell’originaria previsione dell’art. 136 c.p. rubricato “conversione delle pene pecuniarie non eseguite”.

Le pene applicabili per i reati di competenza del Giudice di Pace
Con il D.lgs. n. 274/2000, istitutivo del Giudice di pace, sono state previste nuove sanzioni per i reati di sua competenza, quali la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità, entrambi applicabili ai minorenni. Ciò nonostante , anche nel caso di reati di competenza del giudice di pace, la competenza a giudicare il minore spetta al Tribunale per i minorenni, che provvederà ad irrogare le sanzioni previste dal D.Lvo 274/2000.

La sospensione condizionale della pena
L’art. 163, co. 2 del c.p. dispone che nel caso in cui il minorenne sia condannato a pena non superiore a tre anni, anche se congiunta a pena pecuniaria che ragguagliata ex art. 135 c.p. comporti la limitazione di libertà per tre anni, il giudice può concedere la sospensione condizionale della pena per la durata di cinque anni; stessa possibilità è prevista anche nel caso di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva purché non superiore a tre anni, anche nel caso in cui il ragguaglio con quella pecuniaria superi i tre anni di pena detentiva.
La concessione della sospensione condizionale richiede quale presupposto che, anche sulla base dei criteri di cui all’art. 133 c.p., il giudice ritenga che il colpevole si asterrà dalla commissione di ulteriori reati. La sospensione non può esser concessa nel caso in cui il minore abbia già riportato una sentenza di condanna a pena detentiva, ovvero quando è prevista congiuntamente ad una misura di sicurezza. Inoltre, la sospensione non può essere concessa più di una volta, salvo che la seconda condanna, cumulata con la precedente, rientri nel limite di tre anni.
Il reato si estingue nel caso di mancata commissione di ulteriori delitti ovvero di contravvenzioni della stessa indole nei cinque anni successivi.

La giustizia riparativa
La giustizia ‘riparativa’ è un modello di giustizia diverso da quello o rieducativo che, indirizzandosi verso la riparazione del danno o delle sofferenze cagionate dal reato, dovrebbe portare alla riconciliazione tra le parti ed nei confronti della società.
La giustizia riparativa può attuarsi attraverso la mediazione oppure tramite i lavori socialmente utili.
Quanto alla mediazione, come elaborata anche nelle esperienze di altri Stati, è essenzialmente un modello consensuale di gestione dei conflitti, che opera tra le parti interessate, autore del reato e vittima, mediante l’intervento di un mediatore.
In tal senso, a livello internazionale, si rinvengono i principi dettati dalle Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile (O.N.U., New York, 29 novembre 1985), che promuove l’utilizzo di misure extra-giudiziarie finalizzate alla restituzione dei beni e al risarcimento delle vittime.
Inoltre, la Raccomandazione (87) 20 sulle risposte sociali alla delinquenza minorile (Consiglio d’Europa, Strasburgo, 17 settembre 1987), prevede per i minorenni l’opportunità di uscita dal circuito giudiziario e la ricomposizione del conflitto attraverso forme di diversion e mediation, raccomandando l’utilizzo di misure che comportino la riparazione del danno causato.
Un sostegno specifico all’introduzione della mediazione penale quale strumento di risoluzione dei conflitti proviene dalla Raccomandazione (99) 19 del Consiglio d’Europa, adottata dal Comitato dei Ministri in data 15.9.1999.
Peraltro, anche nella Direttiva 2012/29 del Parlamento Europeo del 25.10.2012, dettata in materia di protezione delle vittime del reato, è contenuto il richiamo alla giustizia riparativa, che, attraverso i suoi servizi, è chiamata a fornire informazioni e consigli alle vittime del reato.
Nell’ambito del procedimento minorile gli spazi normativi in cui si realizzano le esperienze di mediazione penale si possono individuare nell’art. 9 del D.P.R.448/88, durante la fase delle indagini preliminari; nell’art 27 durante l’udienza preliminare o nel dibattimento; nell’art. 29 nell’attuazione della sospensione del processo e messa alla prova; nell’applicazione delle sanzioni sostitutive della semidetenzione o della libertà controllata; infine, la mediazione penale può essere realizzata in fase di esecuzione penale, nell’ambito della misura alternativa alla detenzione di cui all’art. 47 della L.354/75.
Il concetto di riparazione viene inoltre introdotto nel recente Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario e delle misure privative della libertà personale (D.P.R. 230/2000).
A livello nazionale si colloca il documento “L’attività di mediazione nell’ambito della giustizia penale minorile. Linee di indirizzo” elaborato dalla Commissione nazionale consultiva e di coordinamento per i rapporti tra il Ministero della Giustizia, le regioni, gli enti locali ed il volontariato ed approvato in sede politica il 30 novembre 1999, con l’obiettivo di promuovere l’attività di mediazione penale e di fornire orientamenti condivisi e unitari in merito alle modalità di attuazione.
Il modello organizzativo prevalente è costituito da un organismo, denominato “ufficio” o “centro per la mediazione penale”, con sede autonoma rispetto al Tribunale per i minorenni, con il quale collaborano operatori dei servizi minorili della giustizia e dei servizi territoriali sociali e sanitari, esperti e volontari.
A tal proposito, il Dipartimento della Giustizia minorile ha emanato una circolare, prot. 14095 del 30.04.2008, contenente le linee di indirizzo e coordinamento in materia di mediazione penale minorile.
Per disciplinare le modalità di collaborazione e gli impegni assunti dalle diverse amministrazioni, sono stati siglati numerosi protocolli d’intesa con la firma o l’assenso del Presidente del Tribunale per i minorenni e del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, competenti per i vari distretti di Corte d’Appello.
Nella mediazione penale minorile, l’asimmetria delle parti, vittima e reo, costituisce un fattore specifico che richiede particolari cautele e tutele a protezione dei soggetti ed una diversificazione degli obiettivi della mediazione, che devono essere chiariti dal mediatore agli interessati per permettere un incontro e una comunicazione efficace tra le parti.
Nel processo penale minorile la mediazione rappresenta una modalità di intervento di rilevante importanza, in quanto la vittima non può costituirsi come parte civile (art.10 del D.P.R. 448/88), e pertanto con la mediazione le si consente di esprimere in un contesto protetto il proprio vissuto personale rispetto all’offesa subìta e di uscire da un ruolo passivo dando voce e visibilità alla propria identità personale.
Al minore che sia autore del reato, la mediazione permette una responsabilizzazione circa gli effetti e le conseguenze del reato, del danno causato e sulle possibilità di riparazione, anche in relazione all’intento di favorire l’ulteriore capacità di prevenzione delle attività criminose.
Nel contesto dell’attività di mediazione, al mediatore compete il ruolo neutrale di consentire una facilitazione della comunicazione tra vittima ed autore del reato e di riferire al giudice l’esito della mediazione, ma non le motivazioni specifiche della stessa, data la riservatezza dell’incontro. L’esito positivo comporta l’intervenuta ricomposizione o la significativa riduzione del conflitto, dal quale scaturisce la possibilità di definire accordi di riparazione riguardanti interventi diretti alla vittima, compreso il risarcimento, o attraverso lo svolgimento di attività di utilità sociale.
Tale opportunità consente, prescindendo dal giudizio penale, una riparazione delle conseguenze del reato con una diretta valenza restitutiva per la vittima ed educativa per l’autore del reato.
Il dibattito, anche se ancora agli inizi nel nostro paese, verte sui due modelli: riparativo e riconciliativo. A ben vedere la differenza è sottile da un lato e labile dall’altro, considerando che l’obiettivo comune rimane comunque la risoluzione del conflitto attraverso una riorganizzazione del sistema di relazione autore – vittima.
La tesi prevalente in Italia, ove peraltro l’istituto deve necessariamente contemperarsi con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, è quella di tipo riparativo in presenza di aspetti giuridico – sociali e culturali che vedono nella riparazione del danno reale o simbolico una prerogativa irrinunciabile.
Altro strumento della giustizia riparativa è rappresentato dai lavori socialmente utili, visto non in ottica punitiva, bensì quale opportunità del minore autore di reato di rendersi utile alla società, offrendo un contributo fattivo con l’impiego in attività lavorativa in favore della collettività.

La giustizia riparativa, soprattutto rispetto al sistema di giustizia minorile, è stata senza dubbio uno degli ambiti che sono stati ampliati e potenziati dalla Riforma Cartabia (d.lgs. 150/22). Con tale riforma, il legislatore amplia il c.2 dell’art.28 (D.P.R. 488/88), prevedendo la possibilità che il giudice formuli l’invito nei confronti del minore a partecipare ad un programma di giustizia riparativa, ove ne ricorrano le condizioni. Agli artt. 42-67 la Riforma Cartabia introduce in maniera specifica la disciplina della giustizia riparativa, da intendersi come: «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore» (art. 42 c.1, lett.a, d.lgs. n.150/22).
La Riforma Cartabia definisce in maniera esplicita:
i principi che regolano la giustizia riparativa, tra i quali vi è la partecipazione attiva e volontaria; l’equa considerazione dell’interesse della vittima e dell’autore dell’offesa; il coinvolgimento della comunità; la riservatezza; la ragionevolezza e la proporzionalità dell’esito riparativo; l’indipendenza e l’equi prossimità del mediatore; la garanzia del tempo necessario (art. 43, d.lgs. n.150/22).
gli obiettivi, ovvero il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e la ricostituzione dei legami con la comunità (art. 43, d.lgs. n.150/22).
le garanzie, in quanto la vittima e l’autore del reato hanno diritto all’informazione (art. 47, d.lgs. n.150/22) circa la facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa; inoltre, il consenso alla partecipazione deve essere personale, libero, consapevole, informato, espresso in forma scritta e sempre revocabile (art. 48, d.lgs. n.150/22).
Nel rispetto dei principi della disciplina della giustizia riparativa, nel procedimento penale minorile, l’art. 84, c.1, lett.b (d.lgs. n.150/22) recita: «In qualsiasi fase dell’esecuzione, l’autorità giudiziaria può disporre l’invio dei minorenni condannati, previa adeguata informazione e su base volontaria, ai programmi di giustizia riparativa». Inoltre, precisa l’art. 44 (d.lgs. n.150/22) che i programmi sono accessibili senza preclusioni relative alla fattispecie di reato o alla sua gravità e l’accesso è possibile in ogni stato e grado del procedimento penale, nonché nella fase esecutiva della pena o anche dopo l’esecuzione della stessa, così come all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità o per intervenuta estinzione del reato.
Una delle novità riguarda il fatto che la partecipazione ad un programma di giustizia riparativa rappresenta ora un elemento facente parte del progetto trattamentale, da allegare alla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 464-bis c.p.p.). A tal proposito, l’art. 84, c.1, lett.b (d.lgs. n.150/22) definisce che «il giudice, ai fini dell’adozione delle misure penali di comunità, delle altre misure alternative e della liberazione condizionale, valuta la partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo. […]»; pertanto, la partecipazione ad un programma di giustizia riparativa rappresenta un elemento di valutazione a vantaggio del reo minorenne.
La Riforma (d.lgs. n.150/22) è intervenuta anche in merito all’art.1 del d.lgs. 121/18, che definisce le misure penali di comunità, introduce modifiche della disciplina dell’esecuzione penale per i minori di età ed i giovani adulti all’interno degli Istituti penali per minorenni (IPM). In particolare, oltre ai principi generali secondo cui la pena deve tendere alla responsabilizzazione, all’educazione, allo sviluppo psico-fisico del minorenne ed a prevenire la commissione di ulteriori reati, il legislatore sostiene che essa deve favorire anche percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato (art. 84, c.1, lett. a, d.lgs. n.150/22).