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Il D. Lgs. 121/2018 quale prima normativa specifica sull’esecuzione penale per i minorenni

Ad un anno dall’emanazione del D. Lgs. 121/2018, che introduce per la prima volta nel nostro ordinamento una normativa specifica per l’esecuzione penale minorile, sono invero pochissimi gli interventi della giurisprudenza di merito su tale normativa, mentre ancora non si rinvengono provvedimenti della giurisprudenza di legittimità. Si segnala, di contro, una prima rilevante pronuncia della Corte Costituzionale, la sentenza n. 263/2019 del 6.12.2019, che ha ritenuto illegittime le preclusioni di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario per accedere ai benefici da parte dei minorenni. Sentenza che commenteremo in seguito in quanto pare opportuno operare prima una breve esposizione dei contenuti di tale articolato – in particolare per quanto riguarda le misure di comunità – e di come abbia innovato la disciplina dell’esecuzione penale minorile.

L’art. 1 stabilisce espressamente che nell’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità per i minorenni e per l’applicazione di queste ultime si applicano le disposizioni del D. Lgs. 121/18 e, in via sussidiaria, le disposizioni del Codice di Procedura Penale, dell’Ordinamento Penitenziario e del suo Regolamento di esecuzione, nonché le norme del D.P.R. 448/88 (ordinamento del processo minorile) e quelle di attuazione, coordinamento e transitorie approvato con D. Lgs.272/89 (cd. Principio di specialità).

Fissa poi al secondo comma i principi cui devono tendere le pene detentive e le misure penali di comunità, ovvero favorire strumenti di giustizia riparativa e di mediazione penale, favorire la responsabilizzazione, l’educazione e lo sviluppo del minorenne, la preparazione alla vita libera, l’inclusione sociale e prevenire la commissione di ulteriori reati, anche mediante il ricorso ai percorsi di istruzione, di formazione professionale, educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, e ad attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero.

Nell’art. 2 sono elencate le diverse misure nonché i principi generali che le regolano, ovvero che esse debbano favorire l’evoluzione personale e il percorso educativo del minore, sempre che non vi sia prognosi che si sottragga all’esecuzione e reiteri il reato. Appare importante la previsione che tutte le misure debbano avere un programma di intervento educativo, funzione che assume ruolo preminente di esse, e il rafforzamento del principio dell’extrema ratio della detenzione, stante che nei criteri di scelta si tiene conto del rapido inserimento del minore e del minor sacrificio possibile della libertà personale. 

L’adozione della misura viene decisa sulla base dell’osservazione della personalità, della salute psicofisica, dell’età e del grado di maturità del minore, delle sue condizioni di vita, tenuto conto dei programmi educativi e formativi in atto, ed è condotta dall’Ufficio dei servizi sociali minorili. Importante la rilevanza del principio di territorialità della pena di cui al settimo comma dell’art. 2: l’esecuzione avviene prevalentemente nel contesto di vita del minore e nel rispetto delle relazioni socio-familiari, salvo motivi contrari e comunque se vi sono collegamenti con la criminalità organizzata.

È poi prevista all’art 3 l’imposizione di prescrizioni in uno con l’adozione delle misure penali di comunità, quali lo svolgimento di attività di volontariato e di utilità sociale svolte in modo da non interrompere i processi educativi di istruzione e formativi in atto e che prevedono modalità di coinvolgimento del nucleo familiare.

L’art. 2 al primo comma elenca le singole misure penali di comunità, ovvero l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in prova con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare, la semilibertà, l’affidamento in prova  in casi particolari.

L’art. 4 disciplina l’affidamento in  prova al servizio sociale, il quale prevede un limite di pena per l’accesso alla misura fissato in 4 anni e il cui programma prevede di regola percorsi di istruzione e formazione, di lavoro oltre allo svolgimento di attività di utilità sociale e indicazioni utili all’inclusione sociale e all’educazione accompagnato da prescrizioni sulla dimora, divieti di frequentazione di luoghi e persone oltre a indicazioni sull’assistenza familiare e incontri tra i servizi e il minore.

Il nuovo istituto dell’affidamento in prova con detenzione domiciliare può essere concesso laddove difettino i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e andrà disposto “in tutte quelle situazioni in cui il pericolo di commissione di nuovi reati non può essere evitato contando sulle sole prescrizioni di fare e sugli impegni positivi che il minorenne assume con l’affidamento”. Il giudice può prevedere che il minore rimanga presso la propria abitazione e/o luogo di cura e/o accoglienza in determinate giornate della settimana.

Per la detenzione domiciliare le modalità esecutive sono mutuate dalla disciplina degli arresti domiciliari, ma viene prevista la predisposizione di un programma educativo da parte dell’USSM e l’imposizione di prescrizioni che in ogni caso prevedono lo svolgimento di attività esterne, percorsi di istruzione e formazione e favoriscono l’accesso ad attività culturali, sportive e lavorative e in generale di ciò che è utile all’inclusione sociale.

Su tale istituto sembra esserci stato poco coraggio, fissandosi limiti di pena fino a 3 anni che in alcuni casi sono più stringenti di quelli per i maggiorenni o per l’infraventunenne, sebbene vengano fatte salve le ipotesi di poter disporre la detenzione domiciliare al di là dei limiti di pena nei casi di rinvio obbligatorio o facoltativo di esecuzione della pena. 

Sono altresì concedibili al condannato minorenne la liberazione anticipata e l’accesso alle misure alternative previste dal Testo Unico stupefacenti (che hanno un limite di accesso più alto e fissato in 6 anni).

Le criticità del decreto e l’intervento della Corte Costituzionale

All’atto dell’emanazione del decreto non si è completamente realizzata un’esecuzione a misura di minore, a causa della permanenza degli automatismi e delle preclusioni di accesso di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, articolo espressamente richiamato dal terzo comma dell’art. 2 del D.Lgs. come applicabile alle misure penali di comunità, ai permessi premio e al lavoro all’esterno.

Tale conservazione del disposto dell’art. 4 bis in materia di accesso alle misure alternative per i minori appariva altresì in contrasto con alcune pronunce della Corte Costituzionale in materia ed è stata infatti repentinamente fatta oggetto di questione di legittimità costituzionale.

La Corte, con la recente sentenza 263 del 6 dicembre 2019, ha infatti sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, del D. Lgs. 121/18, il quale disponeva che ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno si applica l’art. 4 bis, commi 1 e 1-bis, l. 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento Penitenziario), il quale consente la concessione dei benefici penitenziari ai condannati per taluni delitti, espressamente indicati, solo nei casi in cui gli stessi collaborino con la giustizia. 

Secondo il giudice remittente (tribunale dei minorenni di Reggio Calabria in funzione di tribunale di sorveglianza) la disposizione violava la legge delega e si poneva in contrasto con l’art. 76 della Costituzione nell’estendere ai minorenni e giovani adulti preclusioni analoghe a quelle previste per gli adulti, nonché gli artt. 2, 3, 27, comma 3, e 31, comma 2, Cost., perché tale automatismo, che si fonda su una presunzione di pericolosità basata solo sul titolo di reato commesso, impedirebbe una valutazione individualizzata dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono presiedere all’esecuzione penale minorile. 

Infine, la disposizione si porrebbe in contrasto anche con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 7, 10 e 11 della direttiva 2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Tali disposizioni prevedono il diritto del minore a una valutazione individuale e la necessità di ricorrere, ogni qualvolta sia possibile, a misure alternative alla detenzione.

La Corte accoglie parte dei rilievi del giudice remittente, operando un richiamo ai principi di speciale protezione per l’infanzia e la gioventù, di individualizzazione del trattamento punitivo del minore e di preminenza della finalità rieducativa, ravvisando pertanto la denunciata contrarietà della disposizione in esame ai principi fissati dall’art. 1, comma 85, lett. p), numeri 5) e 6), della legge delega 23 giugno 2017, n. 103, che, appunto, in tema di ordinamento penitenziario, delegava il governo all’adozione di una specifica disciplina che tenesse conto delle «esigenze educative dei detenuti minori di età».

Il legislatore della delega, facendo suoi gli insegnamenti precedenti della Corte e derivanti dalle fonti internazionali, prevedeva un ampliamento dell’accesso alle misure alternative da parte dei minori e l’«eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento» (art. 1, comma 85, lettera p, numero 6) .

la Corte ritiene quindi frustrata l’esigenza dell’ampliamento dell’accesso alle misure alternative e la contemporanea assenza di ogni preclusione legata a rigidi automatismi, ritenendo che la norma sottoposta al suo sindacato «appare in aperta distonia non solo rispetto al senso complessivo dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di esecuzione minorile, ma anche con le direttive impartite dal legislatore delegante».

La Corte osserva che il richiamo all’art. 4 bis da un lato restringe l’accesso alle misure e dall’altro pone dei rigidi automatismi legati al titolo di reato che «irrigidiscono la regola di giudizio in un meccanismo che non consente di tenere conto della storia e del percorso individuale del singolo soggetto e della sua complessiva evoluzione sulla strada della risocializzazione». La Corte ha rilevato come, per le speciali categorie di condannati cui si riferisce l’art. 4 bis, l’accesso ai benefici penitenziari è drasticamente limitato in considerazione della necessità di condotte collaborative con la giustizia, ai sensi dell’art. 58 ter dell’Ordinamento Penitenziario, secondo uno schema applicativo che non differisce in modo significativo da quello previsto per gli adulti.  La presenza peraltro di preclusioni legate a rigidi automatismi impedisce al giudice dell’esecuzione (di sorveglianza) una valutazione del percorso individuale risocializzante del soggetto e, in conseguenza di ciò, «le finalità di prevenzione generale e di difesa sociale finiscono per prevalere su quelle di educazione e risocializzazione, restaurando un assetto in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, sottesi all’intera disciplina del nuovo ordinamento penitenziario minorile», realizzandosi un contrasto con gli artt. 27 e 31 della Costituzione.Dopo aver fatto un richiamo alla sua recente pronuncia 253/19 sull’accesso ai permessi premio per tutti i detenuti sottoposti all’art. 4 bis, la Corte conclude sottolineando come nel caso dei minorenni la finalità rieducativa assuma una valenza ancor più pregnante e da ritenersi prevalente, e come la disposizione censurata impedisca al tribunale di sorveglianza una valutazione caso per caso dell’idoneità e della meritevolezza delle misure extramurarie, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo, senza alcuna preclusione.




Febbraio 2020