Il 2019 ha coinciso quasi del tutto con quell’arco di tempo durante il quale le nuove norme per un ordinamento penitenziario minorile erano già in vigore, senza tuttavia che fossero state emanate dal Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità le linee guida relative all’applicazione del decreto legislativo 121/2018 in questione. Le prime sono infatti state pubblicate in Gazzetta Ufficiale alla fine dell’ottobre 2018, mentre le seconde hanno visto la luce a metà gennaio 2020. Le rilevazioni del nostro Osservatorio al proposito riguardano dunque quella reazione ‘spontanea’ delle carceri minorili a un nuovo ordinamento specifico per loro che si è fatto attendere per quarantatré anni. Tali rilevazioni si sono basate tanto sulle visite agli Istituti Penali per Minorenni quanto su questionari proposti a tutte le direzioni degli Ipm, ai quali tuttavia non sempre abbiamo avuto risposta. Ci hanno risposto con precisione gli Istituti di Acireale, Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Milano, Nisida, Pontremoli e Torino. Ci hanno risposto con un po’ di fatica gli Istituti di Roma e Quartucciu. Non abbiamo avuto alcun riscontro, nonostante il nostro sollecito, dagli Istituti di Airola, Bari, Bologna, Catanzaro, Palermo, Potenza e Treviso.

Nelle carceri minorili, la prassi è andata negli anni senz’altro più veloce della legge.

La prima cosa che va detta nel commentare le nuove norme è che, nelle carceri minorili, la prassi è andata negli anni senz’altro più veloce della legge. Molte delle disposizioni che troviamo nel decreto del 2018 le vedevamo, durante le nostre visite agli Ipm, applicate con naturalezza già da molto tempo. Come scrivevamo nel nostro Rapporto precedente a questo, succede negli istituti per minori che “il direttore conosca uno a uno i ragazzi, come potrebbe accadere in una casa-famiglia”. Così come succede “che i destini individuali dei ragazzi siano effettivamente presi in considerazione empatica, sapendo distinguere atteggiamenti superficiali riottosi da sentimenti profondi di insicurezza individuale derivanti da vite difficili o da uno stato di abbandono familiare e sociale”. Questa conoscenza e questa empatia individualizzate nei confronti dei ragazzi sono quelle con le quali gli operatori degli Istituti hanno da sempre costruito quel progetto di intervento educativo di cui all’articolo 14 del nuovo ordinamento penitenziario per le carceri minorili e che la circolare n. 1 del 18 marzo 2013 del Dipartimento per la Giustizia Minorile al disciplinare pertinente già prevedeva – chiamandolo Piano Educativo Individualizzato – venisse redatto entro trenta giorni dall’ingresso del ragazzo in Istituto (il nuovo decreto fissa un tempo di tre mesi). Quasi tutti gli Istituti ci hanno infatti spiegato come l’entrata in vigore del decreto non abbia mutato su questo il loro approccio e come le attività trattamentali proposte ai ragazzi non siano aumentate a seguito dell’input costituito dalle nuove norme in quanto considerate già affatto adeguate e sufficienti.

Della separazione dei minorenni dai giovani adulti possiamo dire la stessa cosa: in rari casi la struttura dell’edificio l’aveva resa difficile in passato ed essa era tendenzialmente assicurata anche prima della sua esplicita menzione nella norma primaria. Così come quasi mai ci è capitato, nel corso delle nostre visite anche risalenti, di trovare più di quattro ragazzi ospitati insieme nella medesima camera di pernottamento.

“Sotto il profilo semantico, l’accesso all’aperto non può essere ricondotto alla mera uscita dalla stanza per recarsi per esempio, alla saletta per la socialità”

Da Norme e normalità, Garante delle Persone Private della Libertà

Continuando a percorrere le nuove norme nella parte dedicata all’organizzazione interna degli Ipm, incontriamo l’articolo che innalza il tempo minimo garantito ai ragazzi all’aria aperta da due a quattro ore giornaliere. È lo stesso innalzamento che la riforma ha operato nelle carceri per adulti per quei detenuti che non prestano lavoro all’aperto. In questo caso, contrariamente a quanto appena detto, gli Istituti Penali per Minorenni si sono trovati in gran parte a dover ragionare su un cambiamento organizzativo, poiché spesso la giornata dei ragazzi non prevedeva tale numero di ore trascorse all’aperto. Sulla questione, tuttavia, abbiamo riscontrato alcune ambiguità di interpretazione, fin dalle stesse linee di indirizzo emanate dal Dipartimento in relazione all’applicazione del decreto. Qui infatti, pur affermando con nettezza che “ai detenuti che non frequentino attività lavorativa e/o attività trattamentali all’aperto deve essere assicurata la permanenza all’aria aperta per un tempo non inferiore alle quattro ore al giorno”, si commenta che “l’articolo in questione, nel determinare in almeno quattro le ore in cui ai detenuti è consentito permanere all’aria aperta, non appare incidere particolarmente sull’organizzazione degli Istituti, dovendo essere ricompresi in tale ambito i momenti di relax o socialità, oltre che le attività fisiche e ricreative svolte in ambienti appositamente attrezzati – campi sportivi , aree verdi , etc. – ivi compresi quelli vissuti all’interno per motivi atmosferici”. Si cita il problema degli agenti atmosferici, che certo possono determinare una necessaria rinuncia all’aria aperta, ma si menzionano anche i momenti di relax e socialità, spesso trascorsi all’interno dell’edificio a prescindere da pioggia o vento. L’ambiguità della frase sembra essersi innestata su una prassi precedente già ambigua essa stessa. In molti Istituti non viene tracciata una distinzione chiara tra la permanenza all’aria aperta e la permanenza fuori dalla cella. L’elevato coinvolgimento dei ragazzi in attività di vario tipo – scolastiche, laboratoriali, formative – sembra essere considerato sufficiente a rispondere all’articolo 17 del nuovo ordinamento penitenziario minorile. Molte direzioni hanno richiamato il regime aperto e le tante ore trascorse fuori dalla cella come di per sé adeguate a rendere conto delle quattro ore d’aria. Spiace fare qui un simile paragone, ma vale la pena di richiamare la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria emanata nell’ottobre 2017 sull’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, nella quale si legge che “i detenuti/internati 41 bis possono permanere all’aperto per non più di due ore al giorno da trascorrere all’aria aperta o svolgendo attività ricreative/sportive, in appositi locali adibiti a biblioteca, palestra e sala hobby”, come se biblioteca, palestra o sala hobby fossero pacificamente equiparate a uno spazio aperto. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nella sua raccolta di raccomandazioni 2016-2017 dal titolo “Norme e normalità”, afferma di non concordare “con l’interpretazione data di tale previsione dalla circolare recentemente emanata (1 ottobre 2017) e ancor più sull’interpretazione data alla sua lettera da parte di molte Direzioni degli Istituti visitati, secondo cui le due ore costituiscono il massimo tempo da spendere ‘fuori dalla camera di pernottamento’. Rileva che, sotto il profilo semantico, l’accesso all’aperto non può essere ricondotto alla mera uscita dalla stanza per recarsi per esempio, alla saletta per la socialità”. Va senza dubbio sottolineato come lo stile di vita tendenzialmente armonico che si riscontra nelle carceri minorili e la grande attenzione degli operatori per i ragazzi reclusi garantisca un’adesione al rispetto sostanziale della dignità dei detenuti pur in parziale deroga al rispetto letterale della legge. Ma è tuttavia importante esplicitare fin dall’inizio un tale meccanismo di ambiguità affinché non prenda piede e non si affermi come dato di fatto rischiando di sfuggire di mano.

L’articolo 18 del decreto legislativo 121/2018 esplicita che i detenuti sono ammessi a frequentare scuole e corsi di formazione del territorio. Una possibilità che prima non era preclusa, ma che adesso diventa qualcosa di ufficialmente caldeggiato dal legislatore. Il Tavolo 5 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale dedicato ai minorenni autori di reati aveva puntato in maniera molto forte sul rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale, sostenendo che “tanto l’istruzione, quanto la formazione professionale dovrebbero essere svolte il più possibile all’esterno del carcere, inserendo il soggetto in gruppi di giovani che non hanno problemi con la giustizia penale”. Una previsione fondamentale, legata a quel contesto scolastico che per il ragazzo dovrebbe costituire la massima condizione di normalità e quotidianità. Purtroppo tale previsione sembra a oggi nella pratica piuttosto disattesa. L’inserimento dei ragazzi in scuole del territorio è una pratica piuttosto residuale e appena più frequentata sembra essere quella della partecipazione a corsi di formazione esterni. Le stesse linee di indirizzo ministeriali, che la raccomandano per le sezioni a custodia attenuata, non la propongono con nettezza per la generalità dei ragazzi. È sicuramente una strada verso la quale vale la pena di orientare i già grandi sforzi del sistema. Pur nella difficoltà organizzativa che possiamo senz’altro immaginare, dovuta anche fortunatamente alla breve permanenza dei ragazzi in Ipm, sarebbe di grande valore mettere in campo ogni strategia per perseguire al massimo un tale scopo.

Segue l’articolo sui contatti con i parenti o le persone care. L’accesso a colloqui e telefonate viene ampliato dal decreto, si prevede che almeno uno degli otto colloqui mensili si svolga in giorno festivo o prefestivo e si introducono le visite prolungate da effettuarsi in locali per quanto possibile strutturati come una normale abitazione. Tutti gli Istituti che hanno risposto al nostro questionario, con la sola eccezione che vedremo a breve, hanno affermato di essersi adeguati alle nuove norme per quanto riguarda il numero di telefonate e colloqui, nonché la previsione del colloquio in giorno festivo o prefestivo. Il solo Istituto romano di Casal del Marmo – rispetto al quale avevamo già ricevuto segnalazioni di difficoltà in questo senso da parte di parenti di ragazzi reclusi, ai quali pare venisse anche negato il numero minimo di telefonate previste dalla legge – ci ha risposto di non essere in grado di aumentare il numero e la durata delle conversazioni telefoniche concesse a causa della mancanza di strumentazione adeguata. Ha inoltre sostenuto che la carenza di personale di polizia penitenziaria sarebbe all’origine della loro impossibilità di organizzare i colloqui in giorno festivo o prefestivo, con tutte le ripercussioni che ciò comporta su parenti che vivono lontano o su chiunque abbia impegni lavorativi o scolastici. Dopo una nostra segnalazione al Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, tuttavia, ci è stato assicurato un cambiamento di rotta che ci risulta sia effettivamente avvenuto.

I diritti non sono un premio.

I diritti vanno garantiti sempre e comunque.

Quanto alle disposizioni generali date dal Dipartimento nelle linee di indirizzo, ci pare non felice l’affermazione secondo la quale “il principio di premialità, seppur non unico, deve essere tenuto in evidente considerazione anche quale requisito per le modalità di fruizione dei diritti, laddove la norma lascia margine discrezionale all’espansione degli stessi”. Innanzitutto, nella forma, in quanto se parliamo di diritti non vi è alcun principio di premialità da poter essere invocato. I diritti non sono un premio. I diritti vanno garantiti sempre e comunque. La frase è ambigua e intende riferirsi ai minimi e massimi previsti dalla legge nel numero e nella durata dei contatti con le persone care. In secondo luogo, nella sostanza, perché l’interesse superiore del ragazzo impone che a essere massimamente rilevante nella decisione sui contatti con l’esterno da concedere siano i suoi bisogni relazionali e non invece il comportamento tenuto, che ancor più negli adolescenti e nei giovani adulti è il frutto di mille complessità che ha poco senso premiare o punire agendo sulle relazioni affettive.

Per quanto riguarda le visite prolungate, alcuni Istituti ci hanno risposto di non avere spazi da adibire a questo uso (Catanzaro, Quartucciu, Torino, che ha però avviato le procedure per l’allestimento dello spazio apposito, e Roma, nonostante l’ampiezza strutturale che presenta); altri di essere in attesa delle linee guida emanate poi dal Dipartimento nel gennaio di quest’anno (Nisida); altri ancora ci hanno risposto che, pur nell’attesa di costituire un’unità abitativa adeguata a quanto previsto dalla nuova norma, si sono creativamente arrangiati con gli spazi che avevano, talvolta anche esterni, per garantire ai ragazzi di trascorrere un tempo prolungato, per quanto a volte inferiore alle quattro ore previste per le visite, insieme ai propri cari (Caltanissetta, Catania, Pontremoli); qualcuno infine ci ha detto che, nonostante abbia la possibilità di garantire le visite prolungate, non ne ha ancora mai avuta alcuna richiesta da parte dei ragazzi (Acireale, Firenze).

Il diritto all’affettività

In molti si sono interrogati sulla scelta del legislatore di utilizzare la parola ‘visita’ piuttosto che quella, già consueta nell’ordinamento, di ‘colloquio’. Anche a prescindere dalle esplicite intenzioni, una tale scelta avrebbe potuto portare a un’interpretazione estensiva del diritto alla visita, che la sottraesse alle limitazioni imposte dall’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, in particolare quella del controllo visivo. Altre volte in passato la giustizia penale minorile, e non solo in fase di esecuzione delle pene, ha costituito un cuneo che in maniera pionieristica ha consentito l’allargamento di alcune maglie anche nell’ambito degli adulti. Pensiamo ad esempio all’istituto della messa alla prova o a quella apertura nella vita interna agli Ipm che negli ultimi anni, in arte per via legislativa e in parte amministrativa, si è tentato di replicare nelle carceri per adulti. Avremmo sperato che la visita di nuova introduzione aprisse le porte a incontri con persone care sottratti alla vista del personale di custodia, così da lasciare aperta la possibilità per i giovani di vivere la propria sessualità. E avremmo inoltre sperato che ciò avrebbe potuto portare a un’analoga previsione in tutte le carceri. Ma le linee di indirizzo del Dgmc tagliano a monte su questo ogni possibilità, affermando esplicitamente che “poiché alla visita prolungata va applicato lo stesso regime delle visite di normale durata, i controlli saranno quelli previsti dall’art. 18 della legge 354/75”.

Tutti gli Istituti sembrano preoccuparsi di portare il regolamento interno a conoscenza dei ragazzi al momento del loro ingresso, come previsto dall’art. 20 delle nuove norme rubricato come “regole di comportamento”, attraverso gli operatori dell’area educativa e la possibilità di consultarne una copia stampata.

Per quanto riguarda le sezioni a custodia attenuata di cui parla il successivo art. 21, per come sono state recepite dalle linee di indirizzo dipartimentali, la speranza è quella di assistere nei prossimi anni a un progressivo affermarsi di un simile modello fino a vederlo imporsi come il solo modello di detenzione per i minori e i giovani adulti e vederlo invadere anche le sezioni formalmente considerate ordinarie. Si prevede un intervento di sistema e non sporadico, capace di proporre un’offerta integrata rivolta al giovane in raccordo tanto con i servizi sociali territoriali quanto con il mondo della scuola, della formazione, del lavoro, dell’assistenza sanitaria. Una presa in carico a tutto tondo, che permetta al ragazzo di prendere in mano la propria vita fin dal periodo detentivo, assicurando un passaggio verso il rientro in società che renda sostenibile una riacquistata libertà del tutto emancipata dalla vita criminale. Piccole case-famiglia con non più di una decina di abitanti, nei limiti del possibile autogestite responsabilizzando gli ospiti, dalle quali i ragazzi si muovano massimamente verso l’esterno per frequentare attività del territorio immersi in un contesto ordinario. Qualche Istituto è dotato di una sezione a custodia attenuata (Milano, Nisida), qualche altro considera che l’intero impianto della vita interna sia sufficientemente aperto da poter essere considerato tale (Acireale), mentre altri ancora hanno una struttura edilizia ridotta e un numero di ospiti esiguo da non permettere di differenziare le sezioni. Ma rimangono le enormi potenzialità della custodia attenuata, quando intesa nel senso ampio che ritroviamo nelle indicazioni del Dgmc. Potenzialità che ci auguriamo di vedere imporsi come testa d’ariete per una rivoluzione generale del modello detentivo.

Per quanto riguarda infine la preparazione alla dimissione di cui all’art. 24, il dialogo con i servizi socio-sanitari territoriali, l’attività di ponte con le famiglie, la ricerca di opportunità di reinserimento esterne per il ragazzo prossimo all’uscita – raramente per fine pena, più spesso proprio per aderire a un progetto di alternativa alla detenzione – sono nelle corde degli operatori da ben prima dell’entrata in vigore delle nuove norme.

La presa in carico dei ragazzi secondo un’attenzione empatica e personale (…) è qualcosa cui abbiamo sempre assistito nel nostro lavoro di osservazione degli Istituti Penali per Minorenni.

Per concludere questo breve viaggio nel primo anno di applicazione di un ordinamento penitenziario specifico per le carceri minorili, rinnoviamo la convinzione che la presa in carico dei ragazzi secondo un’attenzione empatica e personale, capace di condurre all’elaborazione di progetti di vita individualizzati e virtuosi nell’orientare al meglio una personalità ancora in evoluzione, è qualcosa cui abbiamo sempre assistito nel nostro lavoro di osservazione degli Istituti Penali per Minorenni. Ci auguriamo che le nuove norme sappiano fornire quell’impulso in più per osare in sperimentazioni che possano davvero affermarsi come rivoluzionarie, per guardare oltre, come recitava il titolo del nostro precedente Rapporto sugli Ipm. “Guardare oltre”, scrivevamo allora, “significa insistere nel seguire una via non reclusiva e non procedimentale. I numeri bassi delle persone in custodia consentono sperimentazioni avanzate, modelli di gestione comunitaria, senza tentazioni di tipo disciplinare e repressivo”. E ancora oggi, e con sempre maggiore convinzione, continuiamo a credere nelle nostre parole: “guardare oltre significa non accontentarsi dei risultati conseguiti – che comunque fanno della giustizia minorile italiana qualcosa di cui vantarsi a livello internazionale – e continuare a spingere con forza verso un più profondo cambio di paradigma. Significa trovare strategie sociali per offrire opportunità diverse dal carcere anche ai troppi ragazzi stranieri oggi detenuti che mancano di qualsiasi rete parentale di sostegno. Significa non limitarsi a giocare in difesa, di sola resistenza, con chi auspica una capriola all’indietro del sistema, ma piuttosto guardare in avanti (…). Verso modelli penali più educativi, più comprensivi e meno inutilmente repressivi”.




Febbraio 2020