La compatibilità del giudizio prognostico di pericolosità sociale della persona minorenne con la sua connaturata incompiutezza evolutiva

Il nostro sistema sanzionatorio penale, caratterizzato dal dualismo che vede plasmabile sul minore infradiciottenne una buona parte della normativa prevista per gli adulti, prevede la possibilità di sottoporre il minore – anche infraquattordicenne – a misure diverse dalla pena, come nel caso delle misure di sicurezza, provvedimenti strettamente legati al concetto di pericolosità sociale, il cui giudizio prognostico è, da alcuni, considerato di scarsa legittimità costituzionale.

L’art. 203 c.p. definisce come socialmente pericolosi quei soggetti, anche non imputabili o non punibili, che avendo già compiuto un fatto di reato, lascino presagire la probabilità di commissione di ulteriori fatti penalmente rilevanti e, in ultimo, richiama i parametri dell’art.133 c.p.

Per le persone minorenni, la norma è da leggersi in combinato disposto con l’art. 37, comma 2 del D.P.R. 448/88 che, al fine dell’applicazione delle misure di sicurezza, richiama il ricorrere delle condizioni previste dal 224 c.p. e <<quando, per le specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’imputato, sussiste il concreto pericolo che questi – il minore – commetta delitti con uso di armi o altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l’ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalità organizzata>> .

Sebbene con maggiori garanzie rispetto agli adulti, una delle quali è la tipizzazione delle fattispecie per le quali possono essere astrattamente comminate le misure in questione, il loro inserimento nel D.P.R. del 1988 non ha mai destato grossi plausi nella dottrina, di certo più speranzosa nell’introduzione di norme che soddisfacessero le esigenze educative del minore. Piuttosto, pare invece che si tratti di misure che frustrano la libertà individuale della persona minorenne, sulla base di un giudizio che, sebbene ancorato a garanzie e tutele, resta pur sempre prognostico e, dunque, slegato dall’attualità del fatto di reato. A maggior ragione che trattasi di personalità in fieri e che, in quanto tali, postulano l’incompiutezza del processo evolutivo, rischiando così di cristallizzare una valutazione ad un momento di formazione che non può dirsi concluso.

L’espresso richiamo all’art.224 c.p. impone, poi, al giudice l’ulteriore valutazione circa la gravità del fatto commesso e delle <<condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto>>, per comprendere quale soluzione, tra quelle previste della libertà vigilata e del collocamento in comunità, è più idonea al caso di specie.

Dunque, potrebbe porsi qualche perplessità in ordine alla stigmatizzazione del minore a causa di elementi e condizioni da valutare, al fine del giudizio prognostico, che fuoriescono dalla sua stretta sfera di gestione personale. In particolare, ci si riferisce alle condizioni morali della famiglia in cui il minore è vissuto e da cui assume e assorbe i valori e i disvalori così come proposti, in genere, dalle agenzie educative primarie.

La valutazione delle condizioni morali della famiglia sembrerebbe, prima facie, ripromuovere quanto già richiesto dall’art.9 del D.P.R. 448/88 al fine dell’accertamento della personalità del minore. In particolare, al primo comma, esso prevede che << Il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili>>.

Appare, tuttavia, chiara l’essenziale differenza tra l’accertamento condotto ai sensi e per gli effetti

degli articoli 224 c.p.p. e 9 del D.P.R. 448/88, e non solo sotto il profilo di una scelta linguistica ma piuttosto contenutistica: ovvero, da un lato, la delega al giudice di una valutazione sulle “condizioni morali” della famiglia, concetto quanto mai foriero di rischi interpretativi, dall’altro il riferimento alle “risorse familiari”, certamente più adeguato e scevro da considerazioni astrattamente etiche o personali dell’organo giudicante o inquirente. E’ chiaro che, nel primo caso, la eventuale stigmatizzazione familiare possa ricadere in maniera prepotente su di un minore il cui futuro può, aprioristicamente, essere ritenuto segnato.

E’ di palmare evidenza come, in questi casi, l’impraticabilità del procedimento penale in senso stretto possa essere comunque aggirata dall’instaurazione di un procedimento che abbia ad oggetto la comminazione di una misura di sicurezza.

Il timore, quindi, che le comunità presso cui avviene il collocamento possano servire a mero appannaggio di una ridotta tutela riservata al minore infraquattordicenne è più concreto di quanto non si pensasse con l’introduzione del titolo IV nel D.P.R. in esame.

Al 31 marzo 2021, i minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni, in regime di misure di sicurezza sono in totale 89 unità (di sesso maschile e femminile, di cittadinanza italiana e straniera), secondo i dati più recenti della sezione statistica del Dipartimento di giustizia minorile e di comunità. Solo 17 di questi, collocati in comunità.

Nel 2020, i dati relativi all’anno 2019, contavano 90 unità, 5 in più rispetto all’anno precedente.

Si precisa, tuttavia, che non è specificato quanti di questi versassero, all’epoca del provvedimento, in una condizione di non imputabilità o non punibilità.

Ancora una volta, ci si auspica che in luogo di una normativa fondata su istanze di natura repressiva e, dato ancora più allarmante, sulla base di un giudizio prognostico inattendibile (in quanto relativo ad una personalità in formazione), si pensi ad incidere con misure preventive positive e propositive di inclusione sociale e scolastica, che diano al minore una più concreta prospettiva di vita e che si pongano come alternative valide per il futuro rispetto ad un percorso in senso deviante.