Nel settembre 2023 il Governo italiano ha emanato uno dei tasselli dei vari pacchetti sicurezza e affini che da anni interessano a dire il vero chiunque si sia assunto la funzione di governo, con esiti quasi sempre controproducenti e volti ad aumentare il carico dei tribunali, il numero delle persone ristrette negli istituti penitenziari e le persone sottoposte a misure alternative o di sicurezza.
Paradossalmente ad ogni stagione si ritiene poi di intervenire nuovamente aggravando quegli strumenti che ad oggi hanno dato prova di un pessimo funzionamento come del resto dimostra la necessità di intervenire su disposti normativi recentemente introdotti nell’ordinamento quali, a titolo meramente esemplificativo, il daspo urbano. Oppure si assiste all’ennesimo intervento restrittivo sulla legislazione degli stupefacenti che da trent’anni, nonostante lo stampo repressivo e proibizionista che la sostiene, continua a fallire nel raggiungimento dei suoi obiettivi, non riuscendo in alcun modo a far diminuire i numeri del consumo di stupefacenti e del traffico degli stessi.
Questa volta con il cosiddetto Decreto Caivano (DL 123/2023, convertito in L 159/2023) si interviene sulla normativa degli stupefacenti e sulla normativa del diritto penale minorile, oltre a prevedere un ampliamento delle misure questorili, di cui si aumenta portata e discrezionalità, quali fogli di via e Daspo urbano, volti a realizzare esclusivamente obiettivi di ordine pubblico.
Senza alcuna attenzione a dati di statistica giudiziaria sull’efficacia delle politiche intraprese, si interviene quindi in base a un ritenuto allarme di criminalità minorile, laddove l’Italia in realtà è tra i paesi in Europa con il minor tasso di delinquenza minorile. O meglio – per non cadere nel tranello semantico utilizzato in larga parte da quasi tutti i media nazionali, che puntano a sostanzializzare un qualcosa che in realtà non esiste in misura tale da meritarlo – di reati commessi da minori.
Si interviene anche su uno dei fiori all’occhiello della nostra normativa penale: il DPR 448/88, ovvero il codice del processo penale minorile, che ha in larga parte ispirato anche la Direttiva Europea 800/16 sulle garanzie per i minori coinvolti in procedimenti penali e che ha dato prova di un buon funzionamento ed efficacia, come dimostrano i dati sui reati commessi da minori nel nostro paese.
Alcune delle misure introdotte destano una sensibile preoccupazione dato che rischiano di interrompere od ostacolare i processi educativi dei minori e, più che puntare a politiche di sostegno e di carattere educativo, fanno quasi esclusivamente leva sul versante repressivo, dimenticando in molti casi che in questo delicato campo, e dati anche gli obblighi derivanti da convenzioni internazionali1 e dalla appena menzionata Direttiva minori, sarebbe imperativo perseguire il miglior interesse del minore e non interrompere i processi educativi, formativi, scolastici e di sviluppo, così come considerare la detenzione misura di extrema ratio e che deve avere durata minore possibile.
Accade invece che si ampli la possibilità da parte del questore di applicare il cd Daspo urbano (art. 10 DL 14/17) anche ai minori ultraquattordicenni, misura che prevede che una persona sia interdetta dal frequentare determinati luoghi della città per un periodo non superiore a dodici mesi. Il contravventore al divieto di cui al presente comma è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno.
Nel rendere applicabili tali misure ai minori ci si è dimenticato di renderle compatibili con esigenze di studio o legate allo sviluppo del minore e ai processi educativi in atto, essendo disposto esclusivamente che tali misure prevedano, altresì, modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto.
Oltre ad ulteriori inasprimenti della misura di divieto di accesso a scuole, plessi scolastici e locali aperti al pubblico per chi abbia riportato una condanna per uno qualsiasi dei reati di cui all’art 73 T.U Stupefacenti (art. 13 I c DL 14/17), si prevede che le ulteriori misure preventive di cui all’art. 13 c. 3 diventino anch’esse applicabili ai minorenni, nonché applicabili in tutti i casi di cui all’art. 13 c. 1 in presenza di “specifiche ragioni di pericolosità”, non richiedendosi più l’intervento di una sentenza di condanna definitiva. Tali misure sono: l’obbligo di presentazione presso gli uffici di polizia, l’obbligo di rientrare nella propria abitazione o altro luogo di privata dimora entro una determinata ora e di non uscirne prima di altra ora prefissata, il divieto di allontanarsi dal Comune di residenza, l’obbligo di comparire in un ufficio o comando di polizia specificamente indicato negli orari di entrata ed uscita dagli istituti scolastici.
Si estende poi l’applicabilità dell’avviso orale ai minorenni ultraquattordicenni e anche ai minorenni tra 12 e 14 anni. La procedura di ammonimento può invece essere disposta, ai sensi del comma 2 dell’articolo in esame, nei confronti del minore ultraquattordicenne “fino a quando non è proposta querela o non è presentata denuncia per taluno dei reati di cui agli articoli 581, 582, 610, 612 e 635 del codice penale”, nonché, ai sensi del comma 5, nei confronti del minore di età compresa tra i dodici e i quattordici anni – aprendo pericolosamente a un approccio punitivo verso gli infraquattordicenni non imputabili – quando il fatto da lui commesso sia previsto dalla legge come delitto punito con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
Il nucleo principale del decreto però riguarda gli interventi sulla normativa degli stupefacenti (DPR 309/90) e sul diritto minorile: in relazione alla prima, si inasprisce il trattamento sanzionatorio della fattispecie di lieve entità portando la pena massima dai precedenti 4 a 5 anni e rendendo così possibile ora il ricorso alla custodia cautelare. Viene altresì sancito espressamente che tale reato dà luogo a ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza e che prevede la necessaria celebrazione dell’udienza preliminare, escludendosi così per gli adulti la sospensione del processo con messa alla prova. In sede di conversione si è altresì inserito un’ulteriore aggravante che prevede la pena da un anno e mezzo (e non da 6 mesi) a 5 anni qualora i fatti di cui al 73 V c non abbiano carattere di occasionalità. Si inserisce anche la possibilità che, per i reati relativi all’art 73 TU Stupefacenti commessi in prossimità di determinati luoghi e locali, la concessione della sospensione condizionale della pena sia subordinata al divieto di accesso agli stessi.
L’inasprimento della figura di lieve entità desta serissime preoccupazioni. Innanzitutto si intaserò ancora di più il sistema a causa dell’indiscusso protagonista della penalità in Italia, ovvero l’art. 73 del TU Stupefacenti. Cresceranno i detenuti e crescerà enormemente il carico sui tribunali, allontanando quell’obiettivo di efficienza e riduzione dei tempi dei processi voluto dal Pnrr. Ma soprattutto l’approccio esclusivamente repressivo avrà sui giovani conseguenze drammatiche. Si avranno infatti maggiori arresti di minori, magari copinvolti solo occasionalmente con il piccolo spaccio. Con l’innalzamento della pena da uno a 5 anni diventano applicabili la custodia cautelare e l’arresto in flagranza. Con la legge oggi in vigore, l’arresto per spaccio per i minori è facoltativo. Diventando obbligatorio cambiano le priorità per l’agente delle forza dell’ordine, che prima aveva la possibilità di scegliere la misura da applicare sulla base della propria esperienza e conoscenza del territorio. Possiamo oggi immaginare l’avvento di campagne di perquisizioni davanti alle scuole. Mentre invece si dovrebbe intervenire sui servizi di tossicodipendenza e sull’educazione nelle scuole. Continuare a declinare il tema in chiave unicamente repressiva perpetrerà i fallimenti avuti in oltre trent’anni di politiche fallimentari sulla droga, con costi sociali altissimi e senza diminuzione di traffico e consumi. Ancor più per un giovane, se la sanzione diventa desocializzante non solo falliremo nel fine costituzionale della pena ma anche in quello di prevenzione nella comunità. Infatti quella persona verrà esclusa e ripeterà gli stessi comportamenti. In un circolo vizioso, la riduzione delle opportunità di inserimento potrebbe arrivare a farla a diventare manovalanza della criminalità organizzata.
Veniamo alle modifiche alle norme sul processo penale minorile: qui si ampliano i presupposti di applicazione della misura precautelare dell’accompagnamento a seguito di flagranza (con successivo trattenimento del minore fino a dodici ore), ora possibile in relazione ai delitti non colposi per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni (in luogo dei precedenti cinque anni) e per alcuni reati specificamente indicati (lesione personale, furto, danneggiamento aggravato, alterazione di armi e fabbricazione di esplosivi non riconosciuti, porto abusivo di armi od oggetti atti ad offendere).
Si prevede l’abbassamento al limite di pena di sei anni (da 9) per l’applicazione della custodia cautelare e a 4 anni (da 5) per l’applicazione delle altre misure cautelari non custodiali, prevedendosi altresì l’ampliamento dei termini di durata massima delle stesse, che ora potranno essere pari ai 2/3 (prima era la metà) dei termini previsti per i maggiorenni per gli ultrasedicenni e della metà (prima era 1/3) per i 14/16enni, introducendosi altresì il pericolo di fuga tra le esigenze cautelari che legittimano l’adozione della custodia cautelare.
Si introduce poi una nuova figura tra quella della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto e la sospensione del processo con messa alla prova (artt. 27 e 28 DPR 448/88) all’art 27-bis, denominata “percorso di rieducazione del minore”, che prevede la possibilità di giungere ad una pronuncia di estinzione del reato laddove il minore svolga, compatibilmente con la legislazione sul lavoro minorile, lavori socialmente utili o la collaborazione a titolo gratuito con enti no profit o lo svolgimento di altre attività a beneficio della comunità di appartenenza, per un periodo compreso da uno a sei mesi. L’iniziativa è del solo Pm che la può proporre all’imputato e la sua interruzione ingiustificata o il rifiuto del minore di accedervi precludono l’accesso alla sospensione del processo con messa alla prova e al perdono giudiziale.
Qui si assiste a una vera e propria truffa delle etichette: si maschera quale istituto premiale e deflattivo del processo minorile una misura il cui rifiuto di accedervi o ingiustificata interruzione hanno efficacia preclusiva di istituti quali la sospensione del processo con messa alla prova e il perdono giudiziale e che non prevede in alcun modo il coinvolgimento del minore nella definizione di tale programma né sono previsti momenti di suo ascolto se non al momento dell’avvenuta definizione del programma. Non vi è alcun riferimento a possibilità per la difesa di argomentare in proposito o di poter richiedere modifiche allo stesso, né si prevedono consultazioni con la comunità scolastica o gli esercenti la potestà genitoriale e non viene espressamente stabilito che tale “percorso di rieducazione del minore” non debba interferire o essere di ostacolo ai percorsi educativi, affettivi, di formazione e sviluppo del minore.
In sede di conversione sono stati adottati alcuni correttivi, non essendo più un automatismo la preclusione della sospensione del processo con messa alla prova in caso di mancata accettazione o ingiustificata interruzione di tale percorso, prevedendosi però la possibilità per il Pm di emettere decreto di giudizio immediato in tali circostanze, e si è ampliato il periodo di svolgimento da due a otto mesi.
Tutte queste misure destano una sensibile preoccupazione, in quanto nei primi mesi di applicazione e sul versante dei maggiorenni la ricaduta dell’inasprimento dell’art 73 V c DPR 309/90 si è vista immediatamente con un aumento verticale degli ingressi in carcere e delle presenze negli istituti penitenziari.
Dal punto di vista del diritto minorile le preoccupazioni sono ancora maggiori, in quanto l’insieme dei provvedimenti adottati sembra non tener conto dei principi internazionali e comunitari del superiore interesse del minore e non si premurano di tener conto dei processi educativi e formativi in atto, oltre a prevedersi una più facile e repentina adozione di provvedimenti di privazione della libertà dei minori anche per tempi prolungati e a fronte della commissione di reati di non particolare gravità.
Un approccio muscolare e sul solo versante della repressione che non fa alcun riferimento alla dimensione relazionale e pedagogica che il processo penale minorile ha assunto negli anni a fianco del versante della punizione e che pare violare, come già evidenziato, diversi principi di rango convenzionale, comunitario e costituzionale laddove l’esigenza di prevenire la commissione dei reati sembra poter arrestare i processi educativi in atto dei minorenni che saranno sottoposti a tali procedimenti amministrativi e penali.

Note
1: Convenzione Onu sui diritti del fanciullo del 1989, che fissa disposizioni cogenti per gli Stati che la hanno recepita e fissa espressamente i principi: di non discriminazione (art. 2); del miglior interesse per il minore (art.3), il diritto di essere sentito (e di partecipare al processo e alle sue fasi) art. 6, stabilendosi altresì che la giustizia minorile debba avere un approccio pedagogico ed individualizzato sul minore e con garanzie procedurali (art. 40) e che la privazione della libertà costituisce misura di extrema ratio (art. 37) e deve perdurare per il minor tempo possibile. Vi sono poi altri due atti fondamentali emanati in sede Onu, ovvero la Convenzione di Pechino del 1985 (cosiddette Regole di Pechino) che, pur non fissando principi vincolanti, è relativa alla giustizia minorile e la convenzione de L‘Avana del 1990 sulla protezione dei minori sottoposti a provvedimenti restrittivi della libertà.