Introduzione

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 15 settembre 2023 il testo del cosiddetto decreto Caivano, il quale testimonia fin dal nome della assai discutibile ma diffusa pratica di intervenire normativamente, quasi sempre ricorrendo alla decretazione d’urgenza, all’indomani di fatti di cronaca drammatici, con l’illusione di inseguire questa o quella emergenza attraverso l’irrigidimento degli strumenti penali.
Ci limiteremo in questo nostro contributo a commentare le parti del decreto che incidono appunto sul sistema penale, contenute sostanzialmente nel Capo II recante “Disposizioni in materia di sicurezza e di prevenzione della criminalità minorile”, le sole che abbiano attinenza con la mission della nostra associazione. Antigone, attraverso il proprio lavoro di osservazione e analisi sulla giustizia penale minorile che confluisce nella pubblicazione del sito all’indirizzo www.ragazzidentro.it, si è imposta negli ultimi anni quale interlocutore di istituzioni nazionali e sovranazionali sul tema.
Al di fuori del Capo II, vogliamo solo soffermarci brevemente sull’art. 12 del Capo III, l’unico altro articolo che agisce sul sistema penale introducendo il reato di inosservanza dell’obbligo dell’istruzione dei minori. Si punisce con pene fino a due anni il responsabile dell’adempimento dell’obbligo scolastico del minore che, già ammonito dal sindaco, non adempia adeguatamente a tale sua responsabilità. La mancata documentazione della regolare frequenza scolastica dei componenti minorenni ha inoltre effetti sul diritto all’assegno di inclusione per il nucleo famigliare. Tali disposizioni sono del tutto prive di efficacia preventiva. I contesti degradati, o ancor più quelli legati alla criminalità organizzata, nei quali si matura generalmente la dispersione scolastica non sono permeabili alla minaccia di sanzioni che spesso neanche comprendono, ma necessitano piuttosto di interventi sociali ed educativi sul territorio.
La giustizia penale minorile italiana costituisce da decenni un modello al quale l’intera Europa si rivolge quale pietra di paragone virtuosa. La direttiva dell’Unione Europea del 2016 (n. 800) sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali, alla quale non a caso l’Italia ha fornito un contributo decisivo, guarda in maniera essenziale al modello italiano. Il processo penale minorile disciplinato dallo specifico codice di procedura penale del 1988 (D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448) ha dato prova di successo nel residualizzare la risposta carceraria e abbracciare un modello educativo capace di ricondurre i giovani all’interno della società secondo la finalità propria che la nostra Costituzione assegna alle pene.
Il codice di procedura penale minorile arriva alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso a seguito di profonde elaborazioni culturali presenti nella società italiana e di specifiche sentenze della Corte Costituzionale – che già dalla prima metà degli anni Sessanta aveva dimostrato di aver colto le trasformazioni sociali profonde dando avvio a un’opera di revisione del sistema penale e penitenziario minorile – che hanno svolto il ruolo di autorevole guida verso l’adozione del nuovo codice. Si afferma in esso l’idea che la finalità principale del diritto minorile sia quella di educare il minore autore di reati piuttosto che di punirlo. La giustizia penale minorile in Italia non si basa infatti sulla sola valutazione del fatto di reato, ma innanzitutto sulla valutazione della personalità del minore. Il procedimento penale minorile deve tendere a restituire alla società un minore educato, a mezzo degli interventi mirati sulla sua personalità e sulla sua condizione socio-psicologica.
Il sistema ha dimostrato in questi anni di far fede a quel fondamentale principio dell’interesse superiore del fanciullo codificato dagli strumenti internazionali (tra cui l’art. 3 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989), che entrano nell’ordinamento giuridico italiano quali sovraordinati alle norme interne. L’interesse del minore, in considerazione della sua personalità ancora in evoluzione, va considerato superiore rispetto a ogni interesse legato alla tranquillità pubblica, al decoro cittadino, perfino alla sicurezza urbana, cosa che le norme del presente decreto non sembrano considerare.
Oggi, a fronte di oltre 14.000 giovani in carico ai servizi della giustizia minorile, sono 426 – poco più del 3% – i detenuti nei diciassetti Istituti Penali per Minorenni (Ipm) d’Italia. Come emerge dai rapporti periodici pubblicati da Antigone sul sito sopra citato, il sistema di alternative alla risposta carceraria destinato ai minori e ai giovani adulti, per quanto sicuramente migliorabile, ha dimostrato negli anni la propria tenuta. Oltre 2.800 ragazzi e ragazze sono attualmente sottoposti alla misura della messa alla prova, che prevede la sospensione della stessa azione penale e che presenta una percentuale elevatissima di successi. Nei 17 Ipm italiani non si soffre il sovraffollamento e i numeri contenuti permettono agli operatori di mantenere un’attenzione individualizzata ai giovani detenuti, sostenendoli nel proprio singolo percorso. Anche grazie a tutto ciò il tema dei suicidi, che grandemente affligge il carcere per adulti, è da sempre quasi inesistemnte negli Ipm.
L’espansione dell’azione punitiva proposta nel decreto Caivano a scapito dell’approccio educativo verso i giovani si pone in contrasto con le basi culturali che hanno informato un modello che ha dato prova di funzionare. È una risposta del tutto irrazionale: invece di puntare con ancora maggiore decisione nella direzione dimostratasi virtuosa, si inverte la rotta spingendo su una pericolosa omologazione degli strumenti penali destinati ai minori con quelli destinati agli adulti. E questo sulla base di allarmi generati da fatti di cronaca che incidono fortemente sulla pubblica emotività, ma in assenza di alcuna emergenza oggettiva legata alla criminalità minorile. Uno sguardo ai dati sui minori denunciati all’autorità giudiziaria dalle forze di polizia ci mostra infatti come negli ultimi dieci anni si sia assistito a un andamento oscillatorio che vede gli ultimi dati relativi al 2022 del tutto in linea con gli anni precedenti. Se infatti le denunce erano 32.200 nel 2012, salivano in seguito fino alle 35.750 del 2015 per poi scendere a 34.400 l’anno successivo e poi ancora fino ai 29.600 del 2019. Senza considerare il 2020, che a causa del lockdown ha visto un significativo calo generale della criminalità, i numeri del 2021 e del 2022 (rispettivamente 30.400 e 33.700 denunce) sono sostanzialmente in linea con le oscillazioni dell’ultimo decennio.
La strada da intraprendere è allora esattamente quella contraria rispetto alle nuove norme: invece di avvicinare la gestione del minore a quella dell’adulto in ambito procedurale, bisognerebbe riflettere ancora più a fondo sulla considerazione dei bisogni propri dei giovani, codificandoli anche in ambito sostanziale con un codice penale specifico per i minorenni. Se non è questo il contesto per poter ragionare su una simile riforma, auspichiamo tuttavia che in sede di conversione parlamentare si contrastino quegli interventi normativi che fanno compiere pericolosi passi indietro al sistema della giustizia minorile italiana.
Si potrebbe inoltre cogliere l’occasione per rivedere un aspetto della procedura minorile che in questi anni si è dimostrato problematico sotto più punti di vista: quello del sistema dei cosiddetti ‘aggravamenti’, ovvero ingressi in carcere per un periodo di tempo non superiore a un mese in caso di comportamenti inadeguati tenuti dal ragazzo in comunità. Sono molti ogni anno gli ingressi in Ipm dovuti a tale misura. Sarebbe del tutto opportuno cercare soluzioni diverse per reagire alla violazione delle regole della comunità, soluzioni che non richiedano il passaggio in carcere, sempre traumatico per il giovane, e che al tempo stesso non gravino gli Ipm di questa utenza indiretta, che in effetti è essenzialmente utenza delle comunità stesse.
Quanto alle norme amministrative che prevedono l’estensione del cosiddetto Daspo urbano e che andiamo di seguito a commentare, segnaliamo il numero della rivista «ANTIGONE» (Anno XVII, n. 1) dedicato a “Daspo urbano tra guerra ai marginali e uso improprio del diritto penale” e interamente fruibile online.

Capo II DISPOSIZIONI IN MATERIA DI SICUREZZA E DI PREVENZIONE DELLA CRIMINALITÀ MINORILE

Art. 3. Disposizioni in materia di misure di prevenzione a tutela della sicurezza pubblica e della sicurezza delle città

L’art. 3 del decreto, ovvero il primo articolo del Capo II, agisce su alcuni aspetti delle misure di prevenzione e del cosiddetto Daspo urbano, annoverando i minorenni tra i possibili destinatari dell’ordine di allontanamento, ampliando e facilitando i presupposti per l’applicazione di alcuni obblighi e divieti, allungandone i tempi e aumentando le pene per le violazioni.
Il Daspo urbano è una misura introdotta nel 2017 dal cosiddetto Decreto Minniti (D.L. 20 febbraio 2017, n. 14 frecante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”). Si tratta di una misura di prevenzione atipica che, pur non essendo inserita organicamente nel Codice antimafia (dlgs 159/2011) che regolamenta le misure di prevenzione tipizzate (sorveglianza speciale, avviso orale, foglio di via obbligatorio, divieto e obbligo di soggiorno, oltre alle misure patrimoniali), condivide con queste il fatto di essere applicabile anteriormente alla commissione di reati, ovvero allo scopo di prevenire piuttosto che per sanzionare.
Già al tempo del Decreto Minniti esprimemmo la nostra netta contrarietà a ipotesi di allargamento dell’amministrativizzazione del diritto penale, che lo sottrae al sistema di garanzie previste per quest’ultimo e tende ad aggirare pericolosamente i principi di tassatività e determinatezza, offensività, ragionevolezza. Una consolidata giurisprudenza nazionale e sovranazionale ha storicamente cercato di ricondurre le misure praeter delictum entro limiti rispettosi del principio di legalità, cosa che non sembra fare l’ampia discrezionalità al questore in ambito urbano concessa dal decreto del 2017 e oggi rafforzata.
Il modello di gestione repressiva – in primo luogo amministrativa, ma riversato poi in ambito penale al momento di eventuali trasgressioni – della convivenza urbana proposto dalle norme sul Daspo è volto a dare risposte simboliche e semplificate a problemi sociali complessi, che meriterebbero ben altra attenzione a tutto tondo e ben altri strumenti. Le norme in questione hanno in tutta evidenza come destinatari naturali, da un lato, le fasce più marginali della società che il disagio e l’assenza di domicilio costringono a comportamenti sanzionabili e, dall’altro, le espressioni di dissenso più o meno organizzate.
Non possiamo dunque che confermare la nostra opposizione e preoccupazione nei confronti degli articoli dell’attuale decreto che rafforzano le possibilità di utilizzo degli strumenti in discussione. Un rafforzamento che, tra l’altro, non trova alcuna necessità nell’aumento dei reati, in diminuzione negli ultimi anni, e che fin dalla relazione al decreto del 2017 veniva infatti giustificato con il ricorso alla “percezione di insicurezza” da parte dei cittadini, piuttosto che con dati oggettivi sulla criminalità urbana.
Molte sono le questioni giuridiche che appaiono controverse in relazione al Daspo urbano, a partire dalla mancanza di tassatività della norma nell’individuare i destinatari dei provvedimenti, la quale si presta così a sanzionare – con sanzioni qualificate come amministrative ma dai contenuti decisamente afflittivi – comportamenti reputati di volta in volta pericolosi o semplicemente fastidiosi o indecorosi o ancora legati all’espressione del dissenso. Una preoccupazione che trova conferma nell’introduzione, nel decreto oggi in discussione, della resistenza e dell’oltraggio a pubblico ufficiale tra i reati per i quali il questore può disporre in alcuni casi il divieto di accesso a luoghi pubblici.
L’esplicita estensione ai soggetti minorenni dell’ordine di allontanamento evidenzia il contrasto con il principio del superiore interesse del minore, che difficilmente sarà quello di venire allontanato, semplicemente e burocraticamente, da luoghi di frequentazione. Chiunque abbia esperienza con adolescenti sa che il dialogo, l’ascolto, le spiegazioni, l’educazione sono i soli strumenti attraverso i quali poter ottenere un’autentica consapevolezza sui comportamenti corretti e scorretti da tenere, laddove la mera repressione genera piuttosto controproducenti sentimenti di rivalsa. Per non dire inoltre che un freddo atto formale quale quello dell’organo accertatore sarà difficilmente anche solo compreso da un minorenne.
La disciplina del Daspo urbano pone comunque elementi di tensione tanto con la Costituzione italiana quanto con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. I divieti previsti dal Daspo sono adottati dal questore senza convalida dell’autorità giudiziaria, sottraendoli così alla riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 della Carta costituzionale. Sebbene la Consulta abbia salvato l’analoga sottrazione prevista nel Daspo sportivo sulla base della considerazione che la misura si limiterebbe a incidere sulla sola libertà di circolazione dell’individuo (sentenza n. 193/1996), il meccanismo delineato dal Daspo urbano introduce sul tema elementi di patente irragionevolezza (cfr. Federica Borlizzi, Daspo urbano: uno sguardo sulle questioni giuridiche controverse e un’indagine empirica, in «ANTIGONE», Anno XVII, n. 1, par. 2.2). Quanto alla CEDU, la fondamentale sentenza “De Tommaso c. Italia” del 23 febbraio 2017 – che ha dichiarato l’inadeguatezza di misure preventive imposte al ricorrente sulla base della legge n. 1423/1956 in quanto mancanti di prevedibilità, godendo il giudice di eccessiva discrezionalità senza che la legge fornisca indicazioni chiare e specifiche su come essa vada esercitata – ci indirizza con chiarezza verso possibili profili di incompatibilità con l’art. 2, Protocollo 4, della Convenzione, che tutela la libertà di circolazione. I divieti di accesso previsti dal Daspo urbano nel 2017 e rafforzati dal decreto Caivano presentano infatti forti dubbi di compatibilità legati all’ampia discrezionalità attribuita al questore nell’applicare le misure e nel valutare la pericolosità del soggetto e le condotte che possono essere presupposto del divieto di accesso, non consentendo così alla persona di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, nonché alla vaghezza del contenuto sanzionatorio (quale il divieto di stazionamento in non meglio identificate immediate vicinanze di qualche luogo) che conduce inevitabilmente all’imprevedibilità della condotta configurantesi quale trasgressione.

Art. 4. Disposizioni per il contrasto dei reati in materia di armi od oggetti atti ad offendere, nonché di sostanze stupefacenti

L’art. 4 del decreto legge 123/2023, che non riguarda segnatamente i minorenni ma ha invece affetto anche sugli adulti, è un vero e proprio manifesto di quell’uso simbolico del diritto penale che si fonda su aumenti irrazionali del carico sanzionatorio pur nell’evidenza storicamente dimostrata della loro totale incapacità preventiva e mancanza di efficacia deterrente. Preoccupa in particolare il terzo comma, volto ad aumentare il massimo edittale da quattro a cinque anni per i fatti di lieve entità previsti dal quinto comma dell’art. 73 del Testo Unico sulle droghe.
Oltre un terzo dei detenuti nelle carceri italiane è oggi ristretto per violazioni alla normativa sugli stupefacenti (quasi il doppio della media europea) e l’art. 73 costituisce in assoluto l’attore principale del nostro sistema penale, con un peso enorme sulla spesa e sull’affollamento penitenziario. Oltre un quarto degli ingressi in carcere sono dovuti alla sua violazione. Fu proprio sul quinto comma che si andò ad agire all’indomani della nota Sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che nel 2013 condannò l’Italia in relazione all’affollamento delle carceri e alle condizioni inumane e degradanti della detenzione. Portando il massimo edittale a cinque anni si vanno a includere i comportamenti legati alla lieve entità tra i reati per i quali si prevede, per minori e adulti, l’arresto obbligatorio in flagranza e la possibilità di applicazione della custodia cautelare in carcere. Inoltre, si impedisce l’accesso alla misura dell’affidamento in prova ai servizi sociali che l’art. 47 comma 3-bis dell’Ordinamento Penitenziario prevede possa essere concesso al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore ai quattro anni di detenzione.
Guardando ai più giovani, invece di intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione nelle scuole si va a inasprire una figura di reato che porterà a maggiori arresti di minori che consumano sostanze psicotrope anche leggere e sono spesso coinvolti solo occasionalmente con lo spaccio. La reazione repressiva al fenomeno del consumo – in particolare giovanile – sulla quale si va qui ad insistere continua a portare avanti un sistema che l’intero mondo, a partire dalle Nazioni Unite, ha riconosciuto come fallimentare, un sistema dagli altissimi costi economici e sociali e che si è dimostrato anche in Italia del tutto incapace di prevenire i fenomeni che sostiene di voler combattere. Quando la sanzione è esclusivamente repressiva e finisce per diventare desocializzante, non solo non avremo alcun effetto di prevenzione nella società, ma anzi rischiamo che la persona esclusa ritorni a commettere i medesimi reati e, in una spirale che vede diminuire le occasioni di reinserimento, diventi manovalanza della criminalità organizzata. La stessa mancata diminuzione del traffico e del consumo di stupefacenti dal 1990, anno di entrata in vigore del Testo Unico, a oggi dovrebbe spingerci ad abbandonare una strada che si ripropone adesso solo quale facile manifesto da dare in pasto all’opinione pubblica.

Art. 5. Disposizioni in materia di prevenzione della violenza giovanile

Ribadiamo qui quanto già affermato a proposito del precedente art. 3: l’esplicita estensione ai minori di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni della possibilità di ricevere dal questore l’avviso orale previsto dal codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione o la procedura di ammonimento – in particolare di fronte a episodi di bullismo – introdotta per il reato di stalking nel 2009 parte da presupposti del tutto errati nella gestione dei problemi giovanili. L’adolescente destinatario, probabilmente immerso in contesti di strada degradati o criminali, non avrà strumenti sufficienti per comprendere il significato e le conseguenze dell’avviso stesso, che percepirà quale un inutile strumento di burocrazia repressiva incapace di indirizzarlo verso un autentico cambiamento interiore e nei comportamenti. Se, come l’esperienza insegna, neanche all’interno dei nuclei famigliari funzionano strategie punitive basate su formali avvertimenti e divieti unilaterali, che si rivelano piuttosto controproducenti nell’indurre nei giovani sentimenti aprioristicamente antagonisti, tanto meno esse potranno portare a risultati soddisfacenti in contesti più complessi. Non di avvisi si deve trattare quanto invece dell’apertura di un dialogo con gli adolescenti, ben più faticoso in termini di presa in carico territoriale e di coinvolgimento delle varie agenzie educative ma unica strada capace di determinare l’indirizzo di una personalità ancora in evoluzione.
Anche l’introduzione della possibilità di vietare, assieme all’avviso orale, l’utilizzo di piattaforme social e telefoni cellulari – un divieto per la cui violazione si prevedono conseguenze penali fino a tre anni di carcere – è espressione del medesimo approccio errato all’educazione dei giovani. Sappiamo quanta parte giochino i social network, con modalità più o meno sane, nella vita degli adolescenti. Compito del mondo adulto è quello di indirizzare i ragazzi verso un utilizzo consapevole e rispettoso degli strumenti informatici. Un divieto proveniente dal questore, figura estranea allo spettro educativo e incapace di accompagnare il divieto stesso con dialogo e spiegazioni, andrà inevitabilmente a generare rabbia e verrà visto come un ostacolo esclusivamente da eludere.
Una menzione particolare merita il quinto comma dell’art. 5, che apre pericolosamente a un approccio punitivo verso gli infraquattordicenni non imputabili, prevedendo nei loro confronti casi di applicabilità della procedura di ammonimento da parte del questore. Bisogna disfarsi di ogni tentazione di semplificare il compito educativo in capo alla componente adulta della società riducendo gli anni di vita in cui si considera che i giovani abbiano diritto a ricevere a tutto tondo un’educazione scevra da punizioni prive di contenuto pedagogico. Bisogna mantenere saldo il principio espresso da Papa Francesco nel suo discorso del 2014 alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale secondo cui “Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri”.

Art. 6. Disposizioni in materia di contrasto dei reati commessi dai minori

L’art. 6 del decreto va ad agire sul codice di procedura penale minorile, che dal momento della sua entrata in vigore nel 1988 a oggi ha dato tuttavia buona prova di sé. Si estende la possibilità per gli agenti di polizia giudiziaria di accompagnare presso i propri uffici il minore colto in flagranza di reato, nonché la possibilità per il giudice di disporre le misure cautelari. Preoccupa in particolare l’ampliamento del ricorso alla custodia cautelare in carcere, che vedrà inevitabilmente un aumento dei numeri dei ragazzi ristretti in Ipm. Oltre alla diminuzione del massimo edittale dei reati che la prevedono, l’introduzione dello scippo, della resistenza a pubblico ufficiale e dei fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti tra i reati per i quali si può disporre tale misura rischia di produrre un grande afflusso di giovani in carcere in fase cautelare. Anche l’allargamento delle altre misure potrà produrre un effetto indiretto inflattivo sul carcere, nel caso di inadeguatezza del domicilio o di violazione delle prescrizioni.

Art. 8. Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, in materia di custodia cautelare e percorso di rieducazione del minore

Per quanto riguarda la lettera a) dell’articolo in oggetto, ribadiamo quanto detto a commento del precedente art. 6 a proposito di ogni ipotesi di ampliamento dell’uso della custodia cautelare. Aggiungiamo qui tuttavia che la disposizione volta a permettere l’applicazione della misura “se l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che si dia alla fuga” era già stata introdotta dall’art. 42 del decreto legislativo n. 12 del 1991 con la sola differenza che mancavano lì le parole “e attuale”. Di tale disposizione era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dalla Consulta con sentenza n. 359 del 26 luglio 2000, con la motivazione che il legislatore delegato non aveva rispettato la delega che prevedeva il ricorso alla custodia cautelare in carcere per i minorenni solo quando sussistano gravi e inderogabili esigenze istruttorie o gravi esigenze di tutela della collettività, non comprendendo dunque tra i possibili motivi per disporla il pericolo di fuga, che il legislatore delegato si è limitato a copiare dal processo penale degli adulti.
Per quanto riguarda il percorso di rieducazione del minore di cui alla lettera b) del presente articolo, non è chiaro l’intento del legislatore nel prevederne l’introduzione. Esso infatti si sovrappone in maniera manifesta all’istituto della messa alla prova, sebbene la sua proposizione divenga obbligatoria nei casi previsti. Il rifiuto da parte del giovane o la mancata riuscita del percorso va a determinare l’impossibilità di accesso a quest’ultima. A differenza della messa alla prova, tuttavia, il percorso di rieducazione prevede obbligatoriamente che il giovane svolga lavori socialmente utili o altre attività a titolo gratuito, impedendo così la valutazione caso per caso del magistrato rispetto a come sia meglio per lui o per lei impiegare il proprio tempo (dove lo studio ha un ruolo privilegiato data l’età dei soggetti di riferimento). La messa alla prova non impedisce che al giovane siano impartite prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato, ma neanche le rende obbligatorie, andando così a incontrare quel principio del superiore interesse del minore che deve costituire una guida costante.

Art. 9. Disposizioni in materia di sicurezza degli istituti penali per minorenni

La legge n. 117 del 2014 ha avuto il merito di alzare da 21 a 25 anni l’età della possibile permanenza del ragazzo o della ragazza all’interno del circuito della giustizia penale minorile. Dopo un iniziale momento nel quale gli operatori degli Ipm avevano mostrato la loro preoccupazione di fronte alla prospettiva di dover gestire la detenzione di giovani più grandi e strutturati insieme ad adolescenti, si è assistito a una generale tranquillizzazione e anzi a una valorizzazione da parte di direttori, educatori, assistenti sociali della possibilità offerta ai giovani adulti di usufruire per un tempo più prolungato delle opportunità maggiormente costruttive e individualizzate che la giustizia minorile riesce a prevedere rispetto a quella degli adulti.
La norma in questione cede adesso alla facile tentazione di fornire uno strumento di pronta risoluzione del problema all’istituto che si trovi anche momentaneamente ad affrontare un giovane detenuto di difficile gestione, cosa che naturalmente accade non di rado nel contesto penitenziario. La risoluzione viene tuttavia fondata sulla neutralizzazione del problema piuttosto che sulla sua autentica presa in carico, a scapito del percorso del giovane che verrà seriamente compromesso con il passaggio al modello carcerario degli adulti. Un momento di difficoltà, che si sarebbe potuto risolvere in tempi non lunghi con un approccio più costruttivo alle questioni in campo, rischia di vanificare un cammino complesso verso la reintegrazione sociale e compromettere l’intera vita del ragazzo o della ragazza.
La vaghezza della norma nella determinazione dei comportamenti che possono dar luogo al trasferimento solleva inoltre il tema della mancanza di tassatività, che mette nelle mani della direzione dell’istituto una potenziale arma di ricatto nei confronti dei giovani ospiti.