Lo diciamo con preoccupazione: sono prospettive minori quelle che oggi vediamo rispetto a due anni fa, quando pubblicammo il nostro precedente rapporto sulla giustizia minorile in Italia. Prospettive minori per il sistema, che sta rinunciando a incontrare con pienezza quei principi ispiratori sui quali è stato costruito e che hanno fatto sì che la giustizia minorile nel nostro paese divenisse un modello a livello europeo; prospettive minori per gli operatori, alcuni dei quali fanno un lavoro straordinario fuori e dentro le carceri e si ritrovano strumenti sempre più spuntati e inefficaci; e, soprattutto, prospettive minori per i ragazzi e le ragazze, che si ritrovano attorno più sbarre – fisiche e metaforiche – e meno speranze riguardo al loro futuro.
Non arrivavano a 350 i ragazzi negli Istituti Penali per Minorenni nel febbraio del 2022, quando presentammo il nostro ultimo rapporto biennale prima di quello attuale. Già dal titolo era più ottimista di questo: si chiamava “Keep it trill”, dove nel linguaggio dell’hip hop la parola ‘trill’, unione di ‘true’ e ‘real’, sta a indicare qualcosa di genuino e autentico, come i percorsi individualizzati di quei giovani che il sistema della giustizia rivolta ai minori aveva dimostrato nel tempo di saper supportare. Due anni dopo, senza impennate nei tassi di criminalità minorile, i ragazzi in carcere sono oltre 500, con un incremento del 30% destinato inevitabilmente a salire nei prossimi mesi. Siamo infatti solo all’inizio degli effetti prodotti dal cosiddetto Decreto Caivano, entrato in vigore nel mese di settembre 2023 e puntualmente commentato in questo rapporto. E le presenze nelle carceri minorili sarebbero ancora più numerose se non fosse che una quota di giovani appena maggiorenni viene trasferita con continuità nelle carceri per adulti, interrompendone così il percorso e riducendone ulteriormente le prospettive.
I ragazzi non sono pacchi postali. Non possono essere trattati come fastidiosi oggetti da spostare di qua e di là con l’idea di allontanare i problemi. Non solo di numeri si tratta infatti, ma anche della qualità della vita nel circuito degli Ipm, che è andata decisamente peggiorando negli ultimi tempi. Con il nostro Osservatorio minorile, visitiamo ininterrottamente queste strutture. Da qualche tempo ci rendiamo conto di una pratica, rivolta in particolare ai giovani stranieri, molti di loro minori non accompagnati. Si tratta di ragazzi con un vissuto tragico alle spalle e nessun riferimento sul territorio. Si tratta di ragazzi che non stupisce arrivino in carcere con dipendenze da alcol o da sostanze e con disturbi mentali. Si tratta di ragazzi che hanno bisogno di essere protetti, sostenuti e indirizzati. L’istituzione li tratta spesso invece come seccature da neutralizzare. Come ben spiega Luca Rondi nel suo contributo al rapporto, frutto di una rilevantissima e scrupolosa ricerca, l’uso di psicofarmaci negli Ipm è smodato. La presa in carico psichiatrica e psicologica si riduce di frequente solo a questo. E si unisce alla rotazione tra istituti – in particolare lungo la rotta che da nord porta a sud – che punisce il ragazzo difficile spostandolo da un carcere all’altro, così da mandare altrove il problema e togliere a lui ogni speranza di costruzione di un futuro.
Questi ragazzi, che avrebbero bisogno di tutta l’attenzione e la disponibilità all’ascolto che una società sa dare, entrano in carcere con un reato e dopo poco ne hanno ascritti dieci. La ben comprensibile irrequietezza di adolescenti privati di qualsiasi affetto famigliare e di ogni indirizzo di vita si trasforma con grande facilità nelle accuse di oltraggio a pubblico ufficiale, danneggiamento, rissa, rivolta. I ragazzi stranieri sono circa la metà dei presenti in carcere, una sovra-rappresentazione che si spiega con la maggiore difficoltà ad accedere, anche in caso di reati lievi, alle alternative previste dalla legge. Come giustamente nota nel suo commento Valentina Calderone, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Roma, tale ingiustizia suscita malessere, scarsa adesione alle regole, difficoltà di adattamento.
Certo non aiutano le voci allarmiste su episodi che riguardano giovani detenuti e che i media troppo facilmente rimbalzano. Come quando si grida a pericolosi rivoltosi riferendosi ad adolescenti che in momenti di ira e disperazione spaccano il mobilio della cella o fanno qualche gesto analogo (certamente da disapprovare con fermezza e da insegnare a non ripetere, ma che non può divenire motivo di punizione senza sbocco e riscatto). O come quando lo scorso settembre si sarebbe, nelle parole di un sindacato autonomo di polizia penitenziaria, “evitata un’altra clamorosa evasione” nel Centro di Prima Accoglienza annesso al Beccaria di Milano, forse l’Ipm più difficile d’Italia negli ultimi anni. Era accaduto che dalle celle di due ragazzini stranieri appena arrivati provenissero dei rumori, dai quali si era scoperto che uno di loro stava spingendo sulle sbarre con un pezzetto di ferro staccato dalla finestra. A dirla tutta, non somigliava alla fuga da Alcatraz del 1962 neanche l’evasione precedente, quella del Natale 2022, quando sempre al Beccaria sette ragazzi si allontanarono durante una partita di pallone salendo sulle impalcature allestite per i lavori di ristrutturazione. Chi fu riportato in carcere dalla nonna, chi si rifugiò dai genitori che subito lo convinsero a rientrare, chi dalla sorella che avvisò la polizia: fatto sta che il 29 di dicembre erano tutti e sette nuovamente in istituto.
La convivenza tra ragazzi italiani e ragazzi stranieri viene additata come un problema. Come si legge nella relazione che ha accompagnato l’inaugurazione dell’anno giudiziario lo scorso 25 gennaio, la presenza di questi ultimi, portatori “di gravi disagi psichici anche a cagione di pregresse esperienze di violenze e abusi subiti, ha comportato inevitabilmente un turbamento degli equilibri interni agli Ipm”. La consapevolezza del passato tragico di questi ragazzi, che anche l’amministrazione mostra dunque di possedere, deve spingere con decisione verso un modello che superi ogni tentazione punitiva piuttosto che educativa. Nel nostro continuo viaggio per le carceri minorili, ci si staglia davanti agli occhi il lavoro eccezionale di tanti operatori – direttori, educatori, poliziotti, medici, mediatori, cappellani – che interpretano il loro ruolo senza mai risparmiarsi. Negli istituti dove il dialogo con i ragazzi è sempre aperto e la porta alle loro spalle non è mai chiusa, anche la convivenza tra le varie nazionalità è serena come il resto del clima. C’è chi si sente costretto a dividere le sezioni secondo il passaporto e chi invece non ha mai percepito che questo fosse un tema. Gli adolescenti si orientano, con il dialogo e con l’attenzione. Gestirli secondo un paradigma che si è percepito tra gli adulti è quanto di più lontano si possa fare dai valori dello stimato modello italiano di giustizia minorile.
Dicevamo dunque dei ragazzi trasferiti nelle carceri per adulti. Purtroppo sono tanti, come dimostra il fatto che oggi i ragazzi minorenni sono quasi il 60% dei presenti in Ipm, mentre due anni fa era vero l’esatto contrario. Il Decreto Caivano consente alle direzioni degli Ipm di chiedere l’allontanamento del ragazzo maggiorenne, cedendo alla facile tentazione di disfarsi del problema di fronte a un giovane di difficile gestione. Un momento di difficoltà, che si sarebbe potuto superare valorizzando un approccio educativo e costruttivo, finisce in questo modo – come scrive Don Domenico Cambareri, cappellano dell’Ipm di Bologna, nella sua bella lettera aperta – per vanificare anni di relazione educativa.
Fin qui, alcune delle preoccupazioni che ci investono rispetto a quel che già vediamo nel presente del sistema carcerario minorile. Chiudiamo su una possibile preoccupazione futura. Di nuovo nella relazione pubblicata in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario leggiamo delle difficoltà legate all’inserimento in comunità di ragazzi con problemi psichici o di tossicodipendenza. Difficoltà che ben conosciamo, viste le criticità – emerse con chiarezza dalla ricerca effettuata da Antigone e meritoriamente voluta da Fondazione Compagnia di San Paolo, che pubblichiamo in questo rapporto e che si riferisce a un’area geografica paradigmatica per i risultati ottenuti – della rete delle comunità, penalizzate dall’insufficiente sostegno pubblico e dalla conseguente scarsità di posti e di personale formato per gestire problemi specifici. L’amministrazione annuncia oggi la sperimentazione – per adesso in Campania, Lazio e Lombardia – di una nuova tipologia di strutture residenziali, ovvero comunità terapeutiche ad alta intensità sanitaria volte ad accogliere giovani portatori di un disagio che viene definito ‘psico-sociale’. Ecco: il disagio sociale – di cui sicuramente i minori stranieri non accompagnati, e non solo loro, nel circuito della giustizia penale sono portatori – è un disagio che va trattato, appunto, con strumenti di tipo sociale. Un errore drammatico sarebbe quello di ridurlo a un disagio medicalizzato e trattato esclusivamente da un punto di vista farmacologico e sanitario. Quando al disagio sociale si accompagna un disagio psichico, drammatico sarebbe comunque isolare i ragazzi dalla collettività, prevedendo per loro delle comunità specifiche e differenti da quelle che ospitano gli altri ragazzi nel circuito penale o civile. Con grande attenzione andranno supervisionati questi processi sperimentali affinché non si rischi, dopo quasi cinquant’anni dalla chiusura dei manicomi e oltre dieci dalla chiusura degli Opg, di configurare una situazione di tipo manicomiale per ragazzini minorenni o poco più. Le prospettive – di futuro, di vita, di relazioni sociali – non sarebbero in questo caso minori bensì tragicamente azzerate.